Figlio del primo giocatore nero della storia di un campionato di calcio scozzese – un’ala destra così veloce da meritarsi il titolo di “Black Arrow” dai tifosi della curva del Celtic – Gil Scott Heron decise di correre a sua volta, ma fuori dal campo. Decise di correre con le parole (Because I always feel like running/Because running will be the way your life and mine will be described).
All’alba degli anni settanta le parole erano la sua arma più potente per denunciare l’abisso dell’America dei ghetti e della discriminazione, della povertà e della droga. Insieme ai Last Poets, fu antesignano del rap e al tempo stesso interprete postumo dell’antichissima eredità di Omero. Poesia e musica. Spoken word.
Poi per uno strano gioco del destino, il cantore del “demonio” è stato trascinato all’inferno. A tredici anni di distanza dal suo ultimo disco, e a troppi di più dai suoi veri capolavori, Gil Scott Heron torna nel 2010 con la XL a firmare un nuovo album che ha il sapore di un testamento: I’m New here è una fragile raccolta di poesie e blues strascinati, dai toni cupi e gelidi, così breve (il disco non dura più di trenta minuti), ma assolutamente intenso, quasi testimone diretto dei giorni della galera, dove Scott è stato recluso diversi anni in seguito alla sua dipendenza dalla cocaina.
L’album si apre con un riassunto delle puntate precedenti, On coming from a Broken Home, che è un immergersi nel suo passato di bambino, nella casa della nonna, una forte nera digiuna di ogni tipo di cultura se non quella della vita. Scott ricorda quel tempo dell’innocenza con un ritmo narrato di spoken words su base elettronica di un’apocalisse che avanza lentamente e arriva, alla traccia successiva, con Me and the Devil, un pezzo elettro beat in cui la voce vira potentemente verso il blues, connettendo insieme l’evoluzione e l’archetipo.
I’m New Here, da cui trae il titolo l’album, è una cover da Bill Callahan, che Heron stravolge con maestria, la assurge a parte della propria biografia, forse per quei pochi versi accompagnati da un arpeggio malinconico che gli sussurra sulla spalla no matter how far have you gone / you can always turn around.
Il resto dell’album è un succedersi di poesie recitate e distorte, tra le quali solo due canzoni propriamente dette si fanno strada; I’ll take care of you, un blues disperato, raschiato, accompagnato da un pianoforte essenziale, e New York is Killing me, dove è più viva la radice tribale di Scott Heron.
…and so my life has been guided, recita in chiusura la voce nera del poeta, ritorna lì dove ci aveva incontrati, sul racconto della sua infanzia, come se niente, nel mezzo, fosse successo. Come se niente di quello che è stato – la disfatta, crepuscolo degli dei – ha avuto il potere di corrodere l’innocenza di chi è nato con la poesia nell’anima.
Autore: Olga Campofreda