Correva l’anno 1969 gli Stooges capitanati da un giovanissimo Iggy Pop spaccava in modo eclatante tra gli ambienti punk. L’indimenticabile I wanna be your dog riusciva a scatenare la folla e il rettile Iggy con il suo dinamismo e l’immancabile dorso nudo era inarrestabile sul palco. Sono trascorsi 50 anni e Iggy Pop ora ne ha 72 ed è ancora li’ riuscendo a regalare emozioni.
Il suo ultimo lavoro porta un bel nome: Free. Sebbene gli anni sono trascorsi è sempre a dorso nudo, gli abiti lo imprigionano ha dichiarato più volte e si definisce uguale, nonostante un po’ di tempo sia trascorso resta sempre quel wild rock boy di sempre.
Iggy per il suo 18 esimo disco ha pensato a un mix tra ambienti jazz e testi più tenebrosi. Infatti è andato a dissolversi in Texas per reperire il trombettista Leron Thomas e il chitarrista Sarah Lipstate alias Noveller.
Non un jazz libero; questo diciottesimo album solista si basa su un’articolazione ternaria tra canzoni piuttosto rock, deviazioni atmosferiche e parole parlate, in un decrescendo crepuscolare. Si parte con Free I wanna be free, il tono iniziale è rassicurante anche grazie all’accompagnamento di questa melodiosa tromba, ma si termina con un tono diverso quasi fosse una speranza quello di esere liberi. E’ la volta poi di Loves Missing che richiama vagamente il riff di Do I Wanna Know? degli the Arctic Monkeys, il testardo James Bond poi è basato su un basso che batte in contrasto con una sottile tromba. Dirty Sanchez è quasi hip-hop, poi è la volta di Sonali potremmo definirla molto bowiana con una melodia in riflusso che riesce a tormentare per molto tempo la mente. Si arriva al cuore del disco con We are human, no longer humane e Page. Qui i suoni si espandono, i testi sottolineano l’avanzata della specie tecnologica mostrando una leggera amarezza. Con Glow in the Dark vira verso il synth pop tra l’altro bello il titolo. L’intero finale è interamente parlato, si viaggia in paesaggi ambientali. Una poesia di Lou Reed uscita direttamente dal limbo We Are the People e un’altra di Dylan Thomas Do Not Go Gentle Into That Good Night, che dimostrano se necessario che Iggy potrebbe recitare come Christian Jacob regalandoci brividi della stessa natura del Johnny Cash degli ultimi respiri. Per concludere con The Dawn, la gioia è falsa , è solo una questione di oscurità.
Qualcosa non va, però, in questo disco, il segno “The End” lampeggia un po ‘troppo forte per essere onesto e chiaro. Due le conclusioni o il suo autore ha attraversato una brutta patch di cui raccogliamo qui i brandelli, o scava apertamente in tutte le direzioni per reperire della qualità.
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autrice: Rosita Auriemma