Philip Selway, batterista e terza voce dei Radiohead, ha pubblicato il suo nuovo disco solista, Strange Dance, il 24 febbraio per Bella Union, un lavoro che segue l’esordio di Familial nel 2010 e il secondo LP Weatherhouse del 2014. Più dei precedenti, questo disco si configura, ed è una novità positiva, con una presenza più protagonista alla voce, e una schiera di collaboratori e collaboratrici che costruiscono un disco molto più orchestrale dei precedenti, con Quinta, membro della sua band precedente ai Radiohead, ancora in prima fila. Lo stesso Selway racconta che ha chiesto ad alcuni dei suoi musicisti preferiti di suonare nel suo terzo disco solista, confessando che se lo immaginava come un disco di Carole King in collaborazione con la pionieristica compositrice elettronica Daphne Oram e lui alla batteria. Non c’è da stupirsi che siano stati tutti convinti, è così ecco reclutati il già citato Quinta, ma anche Hannah Peel, Adrian Utley, Marta Salogni, Valentina Magaletti e Laura Moody.
Ed è forse proprio questa presenza corale a fare di Strange Dance appunto una strana danza, come già si rivela nel secondo pezzo, What Keeps You Awake At Night, pieno di strumenti tra cui predomina lo xilofono, ma soprattutto un grande incontro di orchestra, che rendono questo disco il primo disco veramente ambizioso di Selway e non un side project come sembravano e suonavano gli altri due.
Anche in questo disco vi sono reminiscenze dei Radiohead ovviamente: le si sentono subito, nel piano dissonante di Little Things, e nell’intro di Check for Signs of Life, ma la novità è che sono solo risonanze, perché poi il disco segue una sua strada, (ed è un bene, dati gli esiti ormai autoreferenziali degli ultimi album dei Radiohead).
Proprio Check for Signs of Life, primo singolo, rappresenta questa trama musicale: inizia con un arpeggio molto Radiohead, ma poi nel ritornello la canzone si illumina e si eleva, nella ricerca, come dice il testo, di un conforto alla solitudine disperante che canta il protagonista.
Sempre con voce convinta ma sussurrata Phil canta anche Picking up Pieces, la canzone forse più bella del disco, dove entra in gioco anche il ritmo di batterie e bassi elettronici. Se fin qui si trovano tracce di Radiohead, sono quelle dei Radiohead dei tempi migliori, da Ok Computer a Kid A.
Alla base di questa splendida evoluzione di Selway ci sono tracce nate nel modo più semplice pianoforte e chitarra di casa, ma proprio per questo con pieno ritrovo di melodia e malinconia, all’apice delle sue capacità di autore anche per quanto riguarda i testi, bellissimi e sempre pieni di riflessioni esistenziali o di ricerca di senso nei dialoghi a due (come nell’emozionante monologo di pianoforte The Other Side). Dopo Familial, praticamente un album acustico e intimista, e Weatherhouse (al contrario elettronico fino all’osso), Strange Dance vede Selway usare con trionfo e consapevolezza tutta la gamma musicale e strumentale che la sua ormai trentennale esperienza gli mette a disposizione.
“La portata del disco è stata molto importante per me, fin dall’inizio”, dice. “Volevo che il suono fosse ampio e alto, ma che in qualche modo si avvolgesse intorno a questa voce intima che ne costituisce il cuore”.
Strange Dance si è evoluto anche come progetto grafico e artistico: mentre stava registrando col produttore Marta Salogni negli studi Evolution, il pittore astratto Stewart Geddes ha raccolto le atmosfere del disco e ha creato una serie di dipinti impressionistici che sono andati a costituire poi l’artwork del disco ovviamente.
Nella title track, la batteria ipnotizzante che praticamente conduce da sola il pezzo è condotta da Valentina Magaletti mentre gli arrangiamenti del disco sono di Laura Moody.
Proprio la title track introduce uno dei temi del disco, che è una sorta di ottimismo straniato e straniante: “una delle cose che volevo mostrare nel disco è me stesso a 55 anni che non cerca di nascondere questo fatto. Ciò porta a una sorta di calore nel disco: un senso di ottimismo e speranza. Volevo che questo avesse spazio nel disco e se lo ascolti puoi perderti in questo, è quasi una specie di rifugio”.
Proprio questo senso di rifugio nei momenti più disperati arriva, liricamente nel testo, ma anche con la solarità della chitarra acustica (che ricorda da vicino I Promise dei Radiohead) e degli archi di Make it Go Away, mentre c’è ancora tanto pianoforte in The Heart of it All, laddove Salt Air è quasi cantata a cappella su strumenti appena soffusamente accennati, salvo un violino che conduce la danza sonora in contraltare alla voce di Phil, producendo un effetto quasi celtico alla canzone.
Lo splendido disco si chiude con There’ll Be Better Days, ancora un altro inno all’ottimismo e alla speranza mai però banale nel testo. Il pianoforte di nuovo la fa da padrone ma solo fino a metà pezzo: al minuto 2.13 entrano archi, tastiere e loop di batteria a trasformare il pezzo, come se spuntasse un arcobaleno dopo un temporale. E l’arcobaleno dopo tempesta è in fondo la sensazione che lascia ogni canzone di questo disco: liriche tesissime, spesso cupe e disperanti, da cui però sempre almeno un verso fa intravedere una possibilità di uscita, di speranza, che più che dalle parole è condotta in realtà dalla musica ariosa e solare a cui Phil frequentemente fa ricorso. Nessuna canzone cupa, nessun tono dark. Il 55enne Selway è profondo ma felice, o almeno così lascia intravedere la sua musica, la migliore fin qui compiuta nel suo percorso da solista.
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autore: Francesco Postiglione