I quattro ragazzi provenienti dalla città di Liege, dopo molti EP e singoli, sono al loro primo long album autoprodotto, che si compone di nove pezzi, tutti in lingua inglese.
Dalla copertina, dai colori e dai disegni, si potrebbe giudicare Lungville un album in stile classic-pop, prezioso ed elegante.
Tutt’altro è il reale contenuto: i pezzi, tutti durissimi, rispondono al genere noise-rock, appena un po’ più ricercato del trash-metal, e la chitarra distorta con effetto calabrone la fa da padrona, ma anche qualcosa di più: è la presenza fissa, il marchio di fabbrica della band.
Non si può negare un certo sottofondo di toni che vorrebbero forse essere ipnotici, dark, onirici, ma tutto è sopito dallo schema fisso che si ripete: chitarra distorta, sempre e comunque, batteria che picchia a ritmo lento ma assordante, voce stile trash che vomita più che cantare (di intonazione e melodia, proprio non possiamo parlare, ma è il tributo al genere, più che una colpa del cantante).
C’è qualcosa di talentuoso che si avverte qua e là, ma complessivamente il difetto principale è che tutto ruota intorno a qualcosa di tremendamente già sentito, e nemmeno di recente. Bisogna tornare a Nepalm Death e compagnia, ed è davvero un bel tuffo nel passato. Per di più, le canzoni sembrano distendersi come prolungamenti di una sola, lunga, estenuante esercitazione di batteria-basso-chitarra picchiate fino all’incoscienza.
Gli amanti del genere potranno certo apprezzare, ma nemmeno loro saprebbero verosimilmente trovare qualcosa di nuovo nelle sonorità degli Ultraphallus. Insomma, l’unica cosa originale è il contrasto con i toni della grafica. Un po’ poco per salvare l’operazione complessiva.
Autore: Francesco Postiglione