Un gruppo di fan si è impegnato a riproporre in un documentario di la storia della dissacrante band che furoreggiò tra gli anni ’70 e ’80.
La formazione storica degli Squallor era composta da Totò Savio, Alfredo Cerruti, Giancarlo Bigazzi e Daniele Pace ed dal collaboratore Elio Gariboldi.
«Era il 38 luglio, e faceva molto caldo. Era scoppiata l’afa». Correva l’anno 1973, «il capo indiano che si chiamava: Mo’ vengo anch’io non venne mai», e questi versi immortali segnarono per i ventenni (maschi) di allora il passaggio dal pubblico al privato, dall’impegno allo sbraco, dal messaggio al cazzeggio. Preparato dal gusto per il demenziale radiofonico coltivato in maniera sublime da Arbore, Boncompagni, Marenco e Bracardi con i loro Scarpantibus e Catenacci e Sgarrambona, il verbo degli Squallor (che oggi un gruppo di fan si è impegnato a riproporre in un documentario di imminente realizzazione da un’idea di Carla Rinaldi) era pronto per conquistare il mondo (o almeno l’Italia) e lo fece con i gran pezzi di Troia (Troia era il titolo del loro album d’esordio, ma il cavalluccio di legno che brucia in copertina non tragga in inganno: non è di quella Troia lì che parlavano i quattro moschettieri del doppio senso).
Un disco composto da 13 brani di cui forse solo il citato 38 luglio era all’epoca trasmettibile via radio senza che qualche benpensante gridasse al pudore oltraggiato. Perché qui sta il succo del travolgente successo del gruppo (ricordiamolo: tutto composto da navigati volponi della discografia, che sapevano dunque titillare il pubblico giovanile, ma anche arrangiare a meraviglia testi che da uomini del mestiere avrebbero cestinato all’istante) che nell’arco di un ventennio sfornò una quindicina di album ciascuno a suo modo memorabile, e fregiati da titoli che non lasciavano dubbi sulla strada intrapresa tipo Palle, Pompa, Vacca, Cappelle, Tromba, Mutando, Scoraggiando e via rumoreggiando: osceni calembour, coprolalia gratuita, rime irriferibili, scatologia a gogò e tutto il repertorio del politicamente scorretto in materia di sesso-razza-società, che toccheranno il culmine del trash con Arrapaho, prontamente diventato anche un cult-movie come il successivo Uccelli d’Italia.
Intanto i più giovani tra i post-sessantottini sono diventati prima indiani metropolitani e poi sono entrati nel tunnel depressivo degli anni di piombo; così le avventure erotiche del grande capo Mazza Nera, della squaw Scella Pezzata e degli altri personaggi che popolavano la strana tribù parte-nopea e parte-pellerossa di quel celeberrimo film e 33 sembravano proprio il più efficace antidoto contro il magone da riflusso: grazie alla goliardia impunita dei quattro ormai vecchi marpioni, e all’uso di un italiano stentoreo ibridato con un ruffiano accento napoletano che rendeva accettabili porcherie lessicali altrimenti improponibili.
E qui il merito va tutto o quasi alla «voce narrante» del gruppo, Alfredo Cerruti (con Giancarlo Bigazzi l’unico ancora in attività della formazione, completata dagli scomparsi Daniele Pace e Totò Savio, cui si devono tutti gli arrangiamenti): un «fine» dicitore dai toni tronituanti o all’occorrenza queruli, lievemente nasali e sempre suadenti (era sua la voce fuori campo dell’arboriana «Volante 1 a Volante 2», come è sua quella dello spot Wind con Frassica), un’impossibile via di mezzo tra il dandy annoiato e il camionista arrapato che poteva declamare battutacce come «Tu m’hai scassat’ ‘a penna», o «the wonderful pippa» fino a tracimare in stralunate cronache a due voci dove la musica è solo il tappeto di dialoghi nonsensici. Fino alla voce di nuovo da «prossimamente» con cui, in quello che si può considerare il loro testamento spirituale anticipato («Tocca l’albicocca», ’85) si profetizza: «E i quattro proseguirono per la loro strada, imperterriti, senza ormai più le scarpe, grondi di sudori, sangue a catapetere, tutto avanti senza forza, sopra come una nave, i quattro possono continuare senza vergogna fino alla fine».
Autore: red.
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