Di Jon Hopkins ho avuto la fortuna di ascoltare quasi tutto, spesso mi ha entusiasmato per brevi istanti, poiché in ogni album non riuscivo ad assimilare la completezza estetica, ad eccezione degli ultimi due album tra Reich, Eno e un connubio di psichedelica trascendentale, dove ho amato ogni singola traccia e ho apprezzato le sue sofisticate e intimiste ricerche espressive.
Un artista che ambisce e conquista l’infinita risonanza del mondo della musica elettronica, attraverso l’espressione di formazione che è quella della sua cultura classica, in particolare della sua formazione con pianoforte.
Singularity, un suo vecchio album a cui sono piuttosto legata, rappresentava l’oltrepassare alcune delle chiavi di accesso virtuale fra pop sintetizzato, techno…house elettronica rielaborata sotto effetto di allucinogeni. Ma l’impronta classica tornava sempre, pur senza predominio, eppure nitida soprattutto nelle ultime tracce. Introspezione da mantra e soliloqui ripetitivi che si aprivano come ad osservare le stelle…in modo connesso, infinito.
L’artista inglese rielabora la musica elettronica da club con una matrice assolutamente spirituale, meditativa membro di una complessa e variopinta generazione club da Apparat a Yves Tumor e Gilles Peterson, Eats Everything, Faithless, FourTet, i più di matrice inglese.
I suoi precedenti dischi erano idee strutturate fatte di paradossi, dove la cassa e synth convivevano con il pianoforte, sound minimal e psichedelia, la classica con il linguaggio binario, citando una sua intervista. Adesso però in questo Ep la sperimentazione scarnifica ogni linguaggio utilizzato, attraverso l’utilizzo del pianoforte classico.
Ogni traccia è pura emozione, racconta un ricordo in modo sommesso, e rende concettuale l’intero progetto in solo piano. Ascoltando quest’ultimo album ritorno ad un Brian Eno che si esprime al pianoforte osservando una natura al crepuscolo. Molte le convergenze e le influenze in queste tracce ambientali e scoscese di solo piano con lo stesso Eno, da lui citato, ma anche La Monte Young.
La traccia di Brian Eno da lui rielaborata, Wintergreen è in perenne attesa, racconta il flebile gesto, di un momento forse già trascorso e sfuma lentamente in sordina. Ma è la prima traccia a presentare l’intero Ep…un eco ossia un chorus elettronico che sovrasta poche note ticchettate lievi sui tasti, amplifica il lento ripetersi del ritornello e poi svanisce lasciano l’essenza espressiva del piano.
Gli altri due brani reinterpretati, del catalogo di Luke Abbott (Modern Driveway) e James Yorkston (Heron) sono un amplificazione di momenti riflessivi coinvolgenti. Qui il contorno e le sfumature ruotano intorno alla struttura eseguita dal piano. Ecco quindi quattro tracce ambientali cover davvero sublimi. Ben fatto.
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autrice: Lorenza Ercolino