Un cambio di rotta quale l’esigenza di ritrovare una dimensione più meramente ‘musicale’ che dovrebbe in parte allontanare i ‘nuovi puritani’ dall’hype che ci circonda sembra essere la leva che muove Fields Of Reeds.
Questa sembra essere una bella cosa, non c’è dubbio. Ed effettivamente fin dalle prime note dell’album si è richiamati ad una attenzione all’ascolto che non sembra essere la priorità in questi tempi. Un plauso dunque, una scelta coraggiosa.
Il disco registrato tra Londra e Berlino appare anche un po’ pretestuoso, forse un po’ troppo concettuale, ma come sempre sta a noi lasciare da parte i pregiudizi per valutare correttamente l’opera.
C’è perfino una cantante jazz portoghese, Elisa Rodrigues che collabora in alcune tracce con i fratelli Barnett e quel retrogusto di fado, più mentale che reale, contribuisce all’atmosfera generale languida e decadente, perfino vittoriana ed in perfetta armonia con il nome della band.
Forse far uscire un disco così in prossimità dell’estate che tarda a venire può sembrare una scelta controproducente, perché i suoni sembrano quelli da fine estate; però sulla spiaggia si può anche stare a contemplare le immagini della ‘fine delle cose’, Von Aschenbach insegna.
Questi suoni quasi orchestrali e classici fanno fatica ad entrare nel quotidiano, Nothing Else e Dream sembrano soundtracks d’altri tempi e se qualcuno mollasse prima, lo si può anche capire, ma il coro sentito e questo sì davvero vittoriano della titletrack merita rispetto. Fragment Two e V(Island Song) sono invece la più catchy, virgolettando l’aggettivo per come può esserlo in un album così, immaginando la prima come una versione senile degli Alt-J e godendo delle vellutate vertigini che può generare l’altra.
Invece The Light In Your Name – come ha suggerito un attento osservatore – può ricordare – con le ovvie differenze – sir Robert Wyatt.
Di più è difficile dire, per per cui consiglio vivamente l’ascolto di qualche traccia in anteprima all’acquisto perché davvero non è un disco per tutti.
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A.Giulio Magliulo