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Giulio Casale, venti cinque anni di rock italiano.

di Redazione
10 Giugno 2019
in Interviste, music mag
Tempo di lettura: 6 minuti
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In occasione dell’uscita del quarto album solista “Inexorable”, incontriamo Giulio Casale (già frontman degli Estra), il cui percorso artistico perdura da un quarto di secolo, spaziando dal teatro, alla letteratura e, soprattutto, nella musica. Prima leader degli Estra, ora proseguendo la carriera solista con il nuovo full-lenght ribadisce, con granitica convinzione, la figura di partigiano dell’Underground.

Sono passati 6 anni dal precedente album “Dalla parte del torto”. Questa lunga assenza è stata dovuta al fatto che, essendo impegnato in più cosmi artistici non hai potuto dedicare molto tempo alla scrittura musicale?
Casale: Sì, anche. Poi io scrivo sempre… Ma l’assenza non mi preoccupa (l’assenza in sé potrebbe pure essere una risposta agli “anni affollati” che stiamo attraversando), mi preoccupo semmai quando qualcuno pubblica un disco (o un libro, etc.) senza che si avverta, dentro, una reale necessità profonda, da parte dell’autore e dell’opera stessa. Per cui pubblico solo quando sento di avere veramente qualcosa di nuovo da dire, altro piccolo “rumore” da aggiungere al tanto rumore che già ci circonda, ci sovrasta, etc.

“Inexorable” è, la logica prosecuzione dell’e.p. “Cinque anni” pubblicato nel 2017, in cui traspariva di più il tuo aspetto di sperimentatore che non si sofferma mai in cliché sicuri ed acquisiti. E’ in questa prerogativa che scatta la tua molla compositiva?
Ecco sì: a un bel momento sentivo di aver trovato un passo nuovo nella scrittura e anche nel canto, nelle linee melodiche e nelle armonie, e un nuovo suono per vestire tutto questo, e allora ho scritto per mesi canzoni su canzoni, sopra a impulsi ritmici, spegnendo subito dopo la chitarra acustica… Poi ho affidato il grosso di quel mazzo a Lorenzo Tomio (produttore artistico dell’album, assieme a Alessandro Grazian) ed eccoci qua. Sono soddisfatto. Anche nei dieci concerti full band che abbiamo tenuto in giro si respirava un’aria liberata, liberata anche dalla dolente (dolente per definizione – ride) figura stereotipata del “cantautore”…

Ti sei ispirato ad un verso di Michel Houellebecq per battezzare l’opera “Inexorable”, ossia quel vento che soffia forte ed inesorabile ovunque, con identità apolide, pronto a spingere e scatenare ispirazioni e cambiamenti. Conviene sempre respirarlo oppure, talvolta, è bene non lasciarsi coinvolgere completamente dalle sue raffiche per operare con razionale discernimento?
Beh, la tua domanda contiene un’angolazione diversa ancora… Io non sono poi così razionale sai, non totalmente almeno quando compongo e nemmeno quando sto su un palco. Quello che rilevo ad oggi è una progressiva “morte delle idee”, delle grandi prospettive ideali (vedi anche il pezzo intitolato “Tutto cadeva”), e questo ha per risultato uno stallo o addirittura un ritorno a certo autoritarismo, etc etc… Perciò mi sembra importante quel vento inesorabile che ti costringe a ripensarti continuamente, che rimescola la realtà, che risospinga di nuovo conoscenza e aspirazioni individuali. La pura razionalità, di fronte allo smarrimento, rischia d’essere ulteriore freno. Siamo diventati quasi tutti pragmatici e “realisti”, e questo è molto triste, no?

giulio casale 2019_1

Nell’album si respira quell’imprescindibile preferenza a sostare sempre dall’altra parte della barricata, in un’epoca che stagna in questo stallo squallido , in cui il degrado dell’ostentazione finisce per plasmare panorami sterili ed orrorifici. Pur essendo un album che parla, fondamentalmente dei nostri sentimenti, mi sembra che lo spirito dei tempi alimenti il fuocherello su tutta la tracklist: è cosi ?
David Bowie lo chiamava “Zeitgeist” ed è quello che ho continuato a ripetere ad ogni collaboratore, dai musicisti ai tecnici: m’interessa solo la contemporaneità adesso, basta revival, non guardiamoci ancora alle spalle, proviamo ad osare, osiamo, diamo corpo e forma al “suono del presente”. Canto proprio questo tempo, il nostro tempo sì, e sottolineo “canto”, mentre quasi tutti si spostano volentieri verso rime ritmiche, scandite e baciate..

L’autenticità e la coerenza sono per te evidenti ed incrollabili dogmi che ti accompagnano da sempre per rivendicare il tuo ruolo di partigiano della musica. Non sei mai stato tentato di oltrepassare il filo spinato per calcare terreni più accessibili e meno minati?
Casale: Nel disco precedente cantavo “mi sono seduto dalla parte del torto perché ogni altro posto era occupato” citando Brecht, ed è ancora così. Intanto sto lasciando delle tracce, e non è poco, faccio serate, e viene pure qualcuno… L’Italia potrebbe ancora accorgersi del mio percorso, no? Come si dice: è tutto on-line in fondo! Però uno deve stare bene facendo (cantando) se stesso. Non starei veramente a mio agio col repertorio attuale di un Renga per dire – e cito uno bravo, neh?

L’album denota un ‘interessante ventaglio stilistico: dal mood etereo di “Soltanto un video”, al tagliente affondo cantautorale di “Coscienza C”, passando alla matrice rock di “Sono corpo”. Quanto sono state discusse le scelte assemblative con i producers Tomio/Grazian e quali accorgimenti preziosi hanno suggerito per definire con te l’indirizzo degli 11 brani (13 nella versione vinile)?
Molto discusse. E un monte di lavoro e di provini dietro ogni traccia. Poi io a un certo punto mi affido, i collaboratori li scegli per quello, una volta immaginato un mondo lasci anche che qualcuno te lo colori anche un po’ diversamente da come avresti fatto tu… Ma i dischi non si realizzando da soli. Io non ci credo almeno, e sono molto grato a loro entrambi, agli apporti straordinari (generosi) che ho ricevuto.

C’è in te, un significativo anelito di “rivoluzione”, non inteso come cavalcare luoghi comuni, parlando dell’argomento figo del momento, ma operando con stilemi artigianali meno dozzinali che richiedano una comprensione più ricercata ed approfondita. Per te, la fruibilità immediata delle canzoni la avverti come un pericolo?
Beh, diffido assai dell’immediatezza in generale, in ogni campo. C’è sempre qualcosa d’inquietante per me nella piattezza, nello slogan, nella superficialità che pare trionfare, sempre più… Credo nella semplicità, sia chiaro, lavoro molto per semplificare al massimo la mia scrittura, ma non fino al punto di snaturare l’intenzione e lo scopo di una qualsiasi opera. Poi è così bello lasciare aperti più piani di lettura, scoprire a poco a poco altri significati o allusioni… In teoria oggi nessuno ha più tempo per niente, lo so bene, è già molto se uno ci arriva alla fine di una traccia senza skippare, ma io che posso fare: te lo metto lì, se avrai voglia di tornarci sopra magari non poi ti annoi, ecco. Spariamola grossa. L’immediatezza è autoritaria, e io invece sto più coi libertari… Non ti posso e non ti voglio costringere in alcun modo, ma sto cercando di cantare qualcosa che ti riguarda, che forse ci riguarda tutti, e non solo me che canto, ecco.

Dichiari che “L’unica rivoluzione possibile è quella interiore”: lo affermi perché hai constatato che (purtroppo), intorno a noi scarseggia quel vento fresco come agente di cambiamento?
Ma sì, e poi perché se non cambiano prima gli individui, se ciascuno non perviene innanzitutto a se stesso c’è poco da rivoluzionare il mondo attorno. La stessa robaccia tornerebbe fuori sempre un attimo dopo, comunque. E infatti eccoci qua.

Ritengo che la canzone-manifesto che ti rappresenti di più (che dedichi al tuo “fratello” artistico Paolo Benvegnù) sia “Resto io”, in quanto vuole rimarcare la tua granitica convinzione a rimanere te stesso nell’anima, nonostante la vita sia un proliferare di continue esperienze che, volenti o nolenti, ci cambiano. Forse, le tue percezioni fisiche su vari terreni artistici, tra teatro, musica e letteratura ti aiutano a difendere questo tuo “credo”, acuendo le spie percettive per non cadere nell’ordinario?
E’ una buona ipotesi la tua, c’è una piccola ipotesi di salvezza anche nel poter frequentare certi luoghi riparati (dal brutto) come i teatri italiani ad esempio, ma permanere se stessi, accettarsi, accettare anche i propri difetti o fragilità è il lavoro di una vita. Diventare persona e non personaggio sarebbe ancora qualcosa. Via tutte le maschere, via le parrucche! Paolo è esempio di un percorso, di una ricerca che parla proprio di questo. Tu dici “coerenza” parlando di me e ti ringrazio, però per me coerenza è evoluzione, cambiamento, non smettere lo studio, approfondire ancora…
Freakout: In chiusura, ti chiedo quanto l’incontro con Gaber ti abbia elevato intellettualmente, arricchendoti con visioni alternative sulla vita, nello stesso modo di risultare complessi e, forse, mai capiti del tutto come …”Polli d’allevamento”?
Casale: Molto. È tutto nella tua domanda. Lui è un caso pressoché unico tra l’altro: quasi tutti pensano di conoscerlo, ma farsene qualcosa è ancora di là da venire. Ed eccoci qua.

https://www.facebook.com/giuliocasalepage/
http://giuliocasale.com

autore: Max Casali

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