Matteo Dainese (Ulan Bator, Il Cane) accompagna nella produzione il terzo disco degli Albacaduca, gruppo friulano attivo dalla metà degli anni 2000, che propone un rock-metal in italiano contraddistinto da stile energico e momenti melodici alquanto ispirati.
La band ha già all’attivo rassegne e concorsi, presso locali, club e festival che hanno consentito a Massimo Dubini (voce), Massimo Cisilino (basso e cori), Elena Feragotto (chitarre) e Giulio D’Agosto (batteria e cori) di dividere il palco, tra gli altri, con Modena City Ramblers e Motel Connection.
La caratteristica principale di Uomo nuovo, dal punto di vista testuale, è cercare di accompagnare di volta in volta l’ascoltatore attraverso stanze di vita vissute in cui esplorare microcosmi di un’umanità costantemente in bilico tra le sue aspirazioni e i suoi fallimenti, le sue rivalse e le sue paure, i suoi più grandi sogni e le sue più scellerate bassezze (NQO, Vivo), con un fondo sempre polemico e antiautoritario (ma dove sono oggi le autorità, i regimi, le dittature di cui la band parla?), che affonda spesso in un profondo pessimismo sociale (Non ti Basta, Buco di Pietra).
In queste canzoni si sprecano i riferimenti, un pochino anacronistici, sulla perdità di una libertà individuale dovuta a regimi invisibili che impediscono la vita e la vera espressione di se stessi. E’ come se le liriche di questi pezzi volessero imbastire una polemica impossibile contro un nemico invisibile, contro il quale la band dichiara un po’ infantilmente una lotta senza quartiere.
Molto meglio Exodant, Scarti di Stelle, No Man’s Land, Aniel, Perderti Mai, dove la polemica si fa invece disperazione, dolore personale o esistenziale, nichilismo, o contemplazione dolorosa dell’universo, benché anche questo appaia un po’ manieristico e di altri tempi (ne avremo fatta di strada dal pessimismo esistenziale di Leopardi o no?).
In ogni caso i testi di queste canzoni traspirano sofferenza e disagio, in pieno stile rock duro, e anche grande solidarietà verso i peccatori e le vittime: almeno, qualcosa di nuovo e non banale che viene cantato in lingua italiana, e peraltro senza l’insopportabile ermetismo di certe band ben più note che cavalcano il rock nostrano.
Dal punto di vista musicale i pezzi che funzionano meglio sono proprio quelli dove la chitarra durissima della Ferragotto si placa dall’effetto calabrone e disegna invece trame arpeggiate più dolci e intense, mentre gli altri strumenti possono trovare espressione (vedi la bella intro elettronica di Exodant o la soluzione acustica dell’intro di Scarti di Stelle). Complessivamente, sembra proprio che l’album si divida, senza soluzione, fra questi pezzi più chiaramente lirici, melodici, complessi di trama musicale, e pezzi più dichiaratamente metal o comunque hard.
Ciò che va migliorato è senza dubbio la resa metrico-lirica del cantato rispetto alla musica: la band cerca una trama testuale non dozzinale, ma non riesce a risolverla in una metrica che segua il suonato in maniera impeccabile, e ne viene fuori un effetto un po’ disturbante, forse persino voluto, per la totale mancanza di rime, assonanze o qualunque cosa che riesca a spalmare il cantato verso la musica. Peccato perché la voce in sé di Dubini è una delle migliori armi di questo gruppo, che per la verità vanta degli ottimi strumentisti in tutti gli elementi fondamentali, e anche un’ottima attenzione alla produzione e alla rifinitura. E’ raro trovare sfumature così dettagliate nel rock nostrano autoprodotto (e per la viertà, anche nell’ambito del mainstream).
E’ certamente questa la strada giusta che i quattro ragazzi friulani devono continuare a inseguire, perché i risultati non potranno mancare visto anche il panorama desolato nel quale cercano di ritagliarsi un più che legittimo punto di luce.
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autore: Francesco Postiglione