Il 21 ottobre la Play it Again Sam, grande fucina di talenti nordici, ha rilasciato il terzo disco di Agnes Obel, Citizen of Glass, un disco da cui ci si aspettava tanto, dopo lo strepitoso successo dell’esordio con Philharmonics (2010), un album da oltre 450,000 copie in Europa, diventato album di Platino in Francia e Belgio, d’Oro in Olanda e cinque volte disco di Platino nella nativa Danimarca, e dopo la replica con Aventine, registrato presso i Chalk Wood Studios di Berlino, dove l’artista vive dal 2006.
La sfida dell’artista danese è sempre stata quella di conciliare l’impostazione classica, che ha da piccola, con la musica leggera sperimentale, alla stregua di Kate Bush o, per citare riferimenti più recenti, Nils Frahm, o i nostri Allevi e Einaudi o Bosso.
Agnes però non è una pianista, e i suoi pezzi non sono componimenti ma canzoni. Mai peraltro come in questo disco, dove fa la giusta scelta di osare di più abbandonando le strade dei precedenti due, e costruendo canzoni complete, melodiche, più facili all’ascolto, ma senza con ciò rinunciare alla sua impostazione, fortemente presente soprattutto nell’uso rimarcato degli strumenti a corda, violoncello e contrabbasso, che fanno da struttura portante a tutti i pezzi.
Familiar, in questo senso, è esempio tipico: contrabbasso e viola fanno da sfondo all’emozionante duetto di voci, maschile e femminile, mentre Red Virgin Soil è un soliloquio di strumenti a corda, e It’s Happening Again è invece un pezzo di natura classica, piano e voce, di grande melodia e malinconia.
Quello che Agnes ha cercato di fare in questo disco è conciliare la preparazione da strumentista classico con la volontà di comporre musica leggera: ne vien fuori musica di altissimo livello emozionale, che certo “leggera” non è, perché è tremendamente intensa, ma esce dagli schemi della musica da camera per abbracciare un potenziale pubblico più ampio, quello dell’ascoltatore “medio”, che può rifarsi le orecchie con tanta grazia e tanto talento.
“Un esempio di meraviglia quieta”, lo definisce Q, mentre Mojo osserva che l’ultimo disco, peraltro autoprodotto, “incrementerà la sua audience in maniera esponenziale”. Monocle, incisivamente, scrive che “è il perfetto link fra lo sperimentale e l’accessibile. Jazz, Classica, Pop? Chissenefrega”, e non possiamo che concordare anche noi, insieme con tanta stampa inglese e francese che si è esaltata per questo disco, che spazia dal piano e voce alle ballate medievali (Stone, Golden Green), a immaginarie colonne sonore di film gialli (Trojan Horses, GrassHopper), a componimenti vagamente jazz (Citizen of Glass). Melodia, minimalismo e talento: questa la formula vincente di Agnes Obel.
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autore: Francesco Postiglione