Ne avevano fatta di strada Matt e Bubba Kadane come Bedhead negli fine anni 90. Era il 1998 quando la spina di quella band fu tolta, e ancora non se n’è smesso di parlare. Così come non si è smesso di parlare di Cobain o di tanti altri che più indietro nel tempo trovano il loro ultimo documento discografico, d’accordo, ma un conto è la rockstar che ha sollevato masse mediatiche (che può andar bene anche come brutale e maccheronica traduzione di “mass media”) non indifferenti, un conto è un gruppo indie destinato a restare culto di pochi, sinceri e anche maniacli appasisonati.
Anche come New Year i due fratelli di Wichita Falls, Texas, sembrano essere costretti – e non sono certo i soli – ad attingere da questo tipo di pubblico la loro fanbase. Quelli capaci di imparare i testi a memoria dal semplice ascolto, di seguirne un intero tour nazionale (o comunque più di una semplice tappa), di andarne a scovare tutte le vicende. Noialtri che non disponiamo di tale costanza e voracità “affettiva” ci limitiamo a dare il giusto riconoscimento a un disco, quando meritevole di attenzione.
Ed è, indubbiamente, il caso di “The End Is Near”. Dopo “Newness Ends” (ma come, una nuova creatura musicale e già lì a parlare, quasi ossessivamente, di fine…), questo secondo capitolo discografico rappresenta un ulteriore ipoteca su quanto i New Year sembrano intenzionati a fare di proprio dominio: un songwriting che fonda l’intensa e profonda malinconia di un acustico “post-folk sound” e la muscolarità elettrica del rock. Una sorta di “rumorosa quiete” che ha quasi dismesso i panni dello slowcore per avvicinarsi a dinamiche più propriamente post-rock, dalle quali attingere però non tanto la geometricità quanto, piuttosto, l’estetica sonora.
Estetica questa che risalta soprattutto nel crescendo emozionale di ‘Disease’ o nella torrenziale coda chitarristica di ’18’, laddove gli altri brani si attestano su durate tendenzialmente coerenti al formato canzone – ciò che in fondo sembra essere l’obiettivo di Matt e Bubba – e su analoghi sviluppi creativi (il refrain quasi-anthemico di ‘Age of Conceit’), che lasciano però sempre aperta una porta all’inaspettato cambio di direzione, alla falsa partenza e conseguente repentina ripartenza (‘Plan B’). E’ l’estetica, anche, del contrasto che si risolve, per cui i New Year riescono a essere al contempo accessibili e privi di concessioni all’ascoltatore, scarni ed essenziali anche quando la chitarra è lasciata senza briglie, spigolosi anche quando è l’introspezione potrrebbe suggerire affreschi sonori più “morbidi”. Densi, eppure così diradati…
Autore: Bob Villani