Dopo essersi messo a nudo con la sua autobiografia, e con lo spettacolo a Broadway, il cantautore americano ha raccolto un po’ di pezzi lungo il percorso della sua carriera per condividerli con il suo pubblico. “Western stars” arriva cinque anni dopo “High hopes”; cinque anni durante i quali, nonostante l’avvicinarsi dei settant’anni, non ha mai smesso di essere attivo e produttivo. Per questo disco, come lui stesso aveva annunciato, si è profondamente ispirato al pop della California meridionale a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Di rock ce né pochissimo ma lo spessore cantautorale è altissimo. La California, inoltre, è anche l’ambientazione di molti dei tredici brani in scaletta in cui le tematiche sono quelle classiche della letteratura e del rock USA, vale a dire gli spazi deserti, la speranza, l’isolamento, la comunità, i fallimenti in amore. I riferimenti californiani sono presenti sin dal primo brano “Hitch hikin’”, un folk-pop orchestrale, morbido e avvolgente con un finale intenso nel quale il protagonista ha un’attitudine hippie. Accenni di rock, ma subito sostituiti dalle melodie di archi morbidi, sono presenti in pochi brani e tra questi “The wayfarer” e “Tucson train”. Il primo ha un testo autobiografico, con protagonista un viandante, che evidentemente riflette la sua vita raccontata attraverso metafore. Il Boss si mette a nudo, parla di malinconia, della pioggia in arrivo, di un cuore di pietra e dalla difficoltà di dormire di notte. Inoltre, nella frase iniziale, in cui sostiene che l’amore e la gloria vanno e vengono riprende i concetti del mito eterno Ulisse: alla fine c’è bisogno di un posto fisso a cui tornare. “Tucson train”, più orientata verso il rock, anche se i violini hanno una parte determinante, soprattutto nella seconda parte del brano, tratta l’annosa questione del tentativo e della necessità di riscattarsi nella vita. Questo brano evoca “Workin’ on highway” con la differenza che nel brano inserito in “Born in the USA” il protagonista era un detenuto ai lavori forzati, in quest’ultimo caso sembra che sia un ex detenuto o uno che comunque ha avuto molti problemi e ha commesso molti sbagli per cui ha deciso di cambiare vita e città riuscendo ad ottenere una licenza per guidare una gru, sperando che il duro lavoro svolgerà la funzione di lavare/levare i peccati. Qua non è l’acqua di “The river” che lava i peccati ma è il sole californiano che brucerà il dolore, con la speranza che la donna amata lo perdonerà. Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo “Chasin’wild horses”, tra frontiera a pop orchestrale. Qui i cavalli selvaggi sono una metafora della parte ribelle del protagonista che prova ad essere resiliente e cerca di riprendersi dopo una relazione finita male, ma di cui si sente ancora moltissima nostalgia. Nella title-track, il sound si sposta verso la frontiera con una chitarra un po’ vibrante e un’altra in lontananza che crea aperture. Il protagonista, in questo altro capitolo narrativo, è una vecchia comparsa o stuntman del cinema degli anni ’40-’50. Analizzando il testo sorge spontanea una domanda: “quanto c’è di lui in questo personaggio”? È come se questo vecchio attore fosse il suo alter-ego in cui ha depositato tutte le sue angosce e le sue malinconie. Tuttavia, nel finale c’è il rimando alla frase iniziale: l’uomo è contento di ‘indossare i suoi stivali’, vale a dire che nonostante tutto è contento per ciò che ha fatto. Un altro personaggio ispirato al mondo del cinema è quello del folk-pop complesso e aperto di “Drive fast (The stuntman)”, il testo sembra fare il paio con il personaggio del film “The wrestler” (di cui ha scritto l’omonima canzone per la colonna sonora), ma a differenza di questo lo stuntman riesce ad assicurarsi una conclusione della vita serena con una donna con cui metterà insieme i pezzi rotti. Springsteen continua ad essere orientato verso i personaggi più fragili ma a differenza di molti dei suoi lavori precedenti, anche se non sono state delle gloria, nella fase del ritiro (pensione) trovano la serenità.
In questo lavoro tornano anche personaggi della working class (“Sleepy Joe’s café”), tuttavia, non quella a lui contemporanea, ma quella della generazione dei suoi genitori. Sulle difficoltà nella coppia Springsteen ci regala “Stones” una ballata in crescendo, e “Moonlight hotel”, il brano più malinconico del disco, dove i protagonisti sono una coppia che si rifugia nell’alcol per non affrontare la quotidianità delle responsabilità familiari. Una ballata che lascia l’amaro in bocca caratterizzata da un’efficacissima descrizione cinematografica, in cui più che negli altri dodici brani Springsteen dimostra di avere ancora un’enorme capacità di caratterizzare i personaggi, come un maestro del cinema.
Per il momento dobbiamo ‘limitarci’ ad ascoltare questo disco e a metabolizzarlo dato che il suo tour inizierà nel 2020, a causa ltri impegni dei membri degli E Streeters infatti oltre a Patti Scialfa vi hanno suonato soltanto Charlie Giordano e Souzie Tyrell.
autore: Vittorio Lannutti