A naso, direi che Death Vessel potrebbe essere una delle sensazioni folk americane dell’anno, tanto sta facendo parlare di sé. Secondo disco per lui, dopo l’esordio del 2005 intitolato ‘Stay Close’ (coproduzione North East Indie e ATP rec.), passato nel frattempo su Sub Pop. E se avete presente quella pletora di folksinger americani, che negli ultimi anni tanto successo ha riscosso anche in Europa, e nel Mondo – Sufjan Stevens, Devendra Banhart, Jose Gonzalez – tenete conto che Death Vessel, con una capacità compositiva quasi come quella dei suddetti, possiede anche doti d’arrangiamento più originali, ed una voce stranissima che infatti sta catalizzando su di lui l’attenzione dei media, forse in maniera persino eccessiva, oscurando così la sostanza, cioè le sue canzoni; una voce soprano, dunque, praticamente adolescenziale, o addirittura femminea, la stessa di Ramona Cordova o Half-Handed Cloud, e fa uno strano effetto, tanto più che nell’aspetto, Death Vessel assomiglia vagamente, che so, a J Mascis da giovane, con tanto di capelli lunghi.
Originario della Germania, Joel Thibodeau – questo il suo vero nome – è cresciuto nel Nord Est degli Usa, tra Maine e Massashusetts, ed in questo disco del 2008 pubblica 10 canzoni in cui canta e suona l’acustica, l’armonica o il banjo (‘Obadiah in Oblivion’), ma su cui la band che lo supporta, costruisce musiche di campagna, con diverse aperture psych folk anni 60 tipo Pearls Before Swine, Byrds, Crazy Horse (il rock romantico di ‘Exploded View’, o ‘Peninsula’, con un assolo elettrico che va spedito, lì in coda) il tutto piuttosto fresco, gradevole, mai banale. Canzoni ingenue, tenere, che sembrano storie per bambini (‘Bruno’s Torso’, con qualche pennata elettrica, o la dolcissima ‘The Widening’, o ‘Block my Eye’, in apertura), senza la drammatica pericolosità di un Bonnie Prince Billy, ed inoltre Death Vessel riesce laddove ad esempio falliscono, alla lunga prova dell’Lp, le Cocorosie, perché Death Vessel non rischia di annoiare: un disco breve, ed anche in uno spiritual minimale, molto Cocorosie, quale ‘Fences Around Field’, a metà pezzo il nostro s’inventa delle percussioni disordinate e casarecce, che variano un po’ tutto, con gusto d’improvvisazione, giusto per evitare di stancarci. Buon lavoro, ma solo per chi ama il folk, perché ai rockettari, malgrado le invenzioni, questo disco rischia di dare sui nervi.
Autore: Fausto Turi