Sembra che la Homesleep (questa volta con l’aiuto di Santeria) stia portando avanti un progetto ben preciso, almeno per quel che riguarda gli artisti internazionali che sta mettendo sotto contratto. La scelta infatti sembra cadere su gruppi che, lontani da cervellotici e complessi progetti musicali piuttosto che da mastodontiche architetture sonore, trovano forza e linfa dalla leggerezza della musica. Un ritorno a un pop d’autore, e suoni sixteen di cui già avevamo trattato poco tempo fa quando recensimmo gli Austin Lace. Questa volta dal Belgio ci si catapulta direttamente in Portogallo, terra di fado e tradizioni, non propriamente famosa per le sue radici pop rock, che stavolta invece lancia un artista che ha già avuto modo di far parlare di sé, Paulo Gouveia, in arte Gomo. Che, a dire la verità, sembra tanto uno di quei nomignoli che hanno contribuito alla fama di grandi giocatori brasiliani e portoghesi. Fatto sta che questo ragazzo portoghese è uscito con quest’album nel 2004, prima autoprodotto, poi passato sotto l’ala della Universal che lo ha scovato e lanciato al di fuori del Portogallo, grazie ai passaggi in radio e soprattutto grazie a un video che andava in heavy rotation su Mtv. La stramberia del ragazzo la si nota però dal nome che ha voluto dare all’album. Essendo questo, infatti, l’album d’esordio, quale miglior nome se non “Best of”. E forte di questo titolo da artista navigato, Gomo non si perde in chiacchiere e sforna dodici brani veramente leggeri, a volte un po’ troppo a dire la verità, che grazie a pochi accordi e un po’ di voglia di cazzeggio fanno passare una cinquantina di minuti in relax. Paragonato da più parti al Beck più pop, sembra però che il nostro sia un po’ troppo pop anche se è vero che alcuni passaggi sono chiaramente ispirati al folletto californiano. E così l’album comincia con il singolo “Feeling alive”, quello del video che spiegava come fare un video low cost, in cui Gomo duetta a tratti con una vocina alla Alvin (ricordate il cartone?) e che è uno sprizzare di gioia di vivere, passando per “Wonder” con un ritornello che non si stacca da testa (forte della sua anima easy, questa del ritornello che non si stacca da testa, ritorna più di una volta. In fondo anche questo è il pop no?). Si parlava di Beck e “Army’s Slave” può rientrare tranquillamente nel gruppo delle canzoni che potremmo definire a lui ispirate, mentre “Proud to be bald” è una sorta di filastrocca sui capelli (“I don’t care about my hair, about my hair, I just don’t care, and if you care about my hair, maybe you should go somewhere…). “You never came” sembra uscita da un altro album, è infatti la più lenta, e si avvale di una voce in falsetto che la rende come sospesa, mentre “It’s all worth it” è totalmente dedicata al cazzeggio di cui sopra, con un improbabile voce dal forte accento tedesco che spiega passi d’aerobica.
Insomma non vi aspettate rivoluzioni, ma tre accordi e tanto sole.
Autore: Francesco Raiola