I Porcupine Tree, i No-Man, Blackfield, collaborazioni a iosa con gli Opeth, arrangiamenti per gli Anathema. La carriera di Steven Wilson non è solamente un percorso artistico, è un marchio di qualità. Volendo rintracciare le origini della sua immensa creatività si potrebbe tornare al 1975, quando ad uno Steven ancora bambino furono regalati due dischi: “The Dark Side of The Moon” dei Pink Floyd e “Love to Love You Baby” di Donna Summer (il primo prodotto con Giorgio Moroder per intenderci). Il primo diede vita all’anima prog dell’artista britannico, il secondo svegliò, invece, l’anima pop.
Con “To The Bone” Steven svela l’ossatura della sua formazione musicale, si ritorna al pop. Ma il frontman dei Porcupine Tree tiene a precisare: “I grew up listening to a lot of very smart pop records by artists like Kate Bush, Talk Talk, Peter Gabriel, Prince, Depeche Mode, Tears for Fears, The The”. Dunque, non il pop dozzinale da classifica, ma la musica popolare par excellance, dal respiro arena rock, con ritmi incalzanti e melodie addolcite da morbidi suoni sintetici. Tuttavia, e fortunatamente, il debito tributo speso verso gli anni Ottanta non assume la forma di una vuota imitazione, anzi, l’artista britannico riesce a integrare in “To The Bone” quelle venature chitarristiche e ambientali che hanno fatto la storia dei Porcupine Tree.
La title track è esattamente lo stendardo del ritrovato Steven Wilson: un canto profondo talvolta doppiato da voce femminile, un groove funk rock che dinamizza il brano, variazioni sul tema decisamente prog (tanto da aggiungere anche un passaggio di armonica), arrivando a ricordare da un lato il Tom Petty più melodico e dall’altro i Pink Floyd più elettrici. Ma il dizionario pop di “To The Bone” è molto più vasto di così. Si va da “Permanating”, che svela un pattern di citazioni dai Talk Talk (spettro sonoro onnipresente nel disco) a David Bowie, costruendo un intermezzo di solo pianoforte e voce sulle note di una “Life On Mars” velocizzata, fino alla suite “Detonation”: progressive rock puro e immediato, che prende il largo sui toni degli Yes di “Roundabout”, combina momenti acustici tipici dei Gentle Giant, per poi immergere il sound in un profondo scenario ambient, da cui solo un assolo di chitarra riesce a riemergere.
Attraverso la delicatezza di “Pariah” abbiamo un nemmeno tanto velato tributo al Peter Gabriel in coppia con Kate Bush (in tal caso interpretata dalla cantante israeliana Ninet Tayeb), che si apre con un canto celestiale in un pulviscolo di tintinnii sintetici ed esplode in un wall of sound nell’ultimo quarto.
Wilson preferisce tenere larghi gli orizzonti dell’ispirazione, e in “The Song of I” attinge persino al trip hop, quello dei Portishead nello specifico, creando un’atmosfera di beats soffusi e decelerati su cui sintetizzatori e archi dipingono un pop elettronico in chiaroscuro.
Restano d’altronde echi evidenti dei Porcupine Tree (quelli di “In Absentia” su tutti) nell’utilizzo geniale dei silenzi in “Song of Unborn”, il cui minimalismo in crescendo verso il progressive ricorda certamente il classico “Trains”.
I temi affrontati dal disco, inoltre, sono un’aggiunta di valore non indifferente. La verità – e la post-verità -, l’immigrazione (affrontata nella splendida “Refuge”, che dando voce ad uno straniero senza radici si chiede retoricamente “Is this life?”), l’identità digitale, i lati oscuri della società contemporanea (sottolineando ulteriormente il parallelismo con la figura di Peter Gabriel).
“To The Bone” è un disco che piacerà indubbiamente ai fan del Wilson del passato (quello più rocker), a coloro che lo hanno incontrato nei suoi progetti paralleli come Blackfield o No-Man, ma anche a chi non s’intende particolarmente di prog e desidera solo un ascolto di un buon pop con solidi riferimenti nel passato. E tra un intermezzo di piano e chitarra à la Mark David Hollis, un impegno da popstar anni ’80 e un ritmo synth-pop dei Japan, Steven Wilson inserisce anche la sua personale visione del mondo con lo spoken word iniziale che recita: ”Once we’ve made sense of our world, we wanna go fuck up everybody else’s because his or her truth doesn’t match mine. But this is the problem. Truth is individual calculation. Which means because we all have different perspectives, there isn’t one singular truth, is there?”.
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autore: Gabriele Senatore