E’ sicuramente avventato parlare dei Jacuzzi Boys come delle promesse incompiute. E’ avventato farlo al terzo album, è, quantomeno, prematuro. E’ vero che si erano presentati nel 2009 con un album fresco e frizzante, No Seasons, che coniugava un approccio rude e grezzo alla cura melodica, facendo intravedere una nitida vena compositiva. Il precedente Glazin’, pubblicato due anni fa, si posizionava sulla falsariga dell’esordio, senza però possedere le carte giuste per imporsi definitivamente. Un difetto che caratterizza anche questo ultimo lavoro discografico, omonimo, uscito per la Sub Pop lo scorso settembre. Dicevamo di uno stile incompiuto, apprezzabile nelle singole canzoni, ma nella generalità dell’album incompiuto. Anche quest’anno i 3 ragazzi di Miami hanno saputo mostrare le loro migliori qualità, ma senza riuscire ad elevare il proprio lavoro ad un livello superiore, rimanendo nella sufficienza.
“Jacuzzi Boys” conserva l’attitudine garage e un lo-fi artificioso, completati da una voce rarefatta e graffiante. Il sound di base è meno pastoso e compresso in favore di una maggiore attenzione alle melodie, che si avvicinano decisamente a suoni pop. E’ inevitabile sentire gli echi le note di “Monomania” dei Deerhunter in questo disco, nelle miscele letali di asprezza e armonia, piuttosto che i graffi sonici degli Youth o, per restare in ambito 2013, dei Chelsea Light Moving. L’energia dei riff è quella dei dischi migliori, lo sviluppo delle trame è frutto di una chiara e ragionata attenzione alla composizione. Per non parlare dell’artwork e del missaggio, ai limiti della perfezione, anche per merito di quella pietra miliare nella discografia moderna che è la Sub Pop seattleiana. Fino a qui si direbbe essere un ottimo disco; purtroppo, però, manca un guizzo che rompa il costante grigiore del disco. Nella mediocrità generale si sente l’assenza della capacità di uscire dalla scolastica esecuzione del compitino, di quello che, fosse il disco di un artista navigato, chiameremmo esercizio stilistico.
Be My Prism è incaricata di aprire il disco, con un principio ruvido e martellante, salvo avere sviluppi, grazie a ritornello e cori, troppo prevedibili. Poi, in alcuni brani la band riuscirà a costruire su riff semplici, ma ben riusciti linee, melodiche piacevoli, dove si incontrano lo-fi e post-punk (Black Gloves e Rubble); altri, seppur appoggiati su una polpa solida, elettrica e sferzante, e su ottime plettrate, hanno sviluppi troppo scontati e piatti per completare al meglio le tracce (Over The Zoom, Domino Moon e Guillotine). Quando cala vertiginosamente l’intensità e ritmi rallentano, la scrittura non sempre sopperisce alla mancanza di carica espressiva (Double Vision, Dust e Heavy Horse), ma in alcuni brani il lucido incastro tra gli strumenti riesce a sfiorare le vette dei già citati Deerhunter (Hotline e Ultraglide).
Dopo questi quaranta minuti, dunque, l’ascoltatore proverà una brutta sensazione di incompiutezza. La genuinità e la freschezza, che sono i punti di forza dello stile jacuzziano, non sempre sono coniugati ad una perfetta composizione, anzi; le distorsioni e le ritmiche martellanti spesso inciampano in trame melodiche mal sviluppate e vengono, purtroppo, sprecate. Detto questo, però, parlare di eterne promesse è una conclusione troppo affrettata per essere lucida.
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autore: Simone Pilotti