di Marco Sica
“… Chi sei tu, dunque?
Sono parte di quella forza che eternamente vuole il Male e eternamente opera per il Bene”
Questa citazione, tratta dal “Faust” di Johann Wolfgang von Goethe, di introduzione nell’edizione in mio possesso de “Il Maestro e Margherita” di Michail Afanas’evič Bulgàkov, ben sintetizza l’enorme valore sotto il profilo extra letterario del travagliato romanzo dello scrittore russo.
Bulgàkov, dopo aver iniziato la stesura dell’opera nel 1928, nel marzo del 1930 brucia in una stufa quando dallo stesso sino a quel momento scritto; ciò a seguito della notizia dell’imminente censura che sarebbe spettata a cagione del suo contenuto cabalistico.
Nel 1931, Bulgàkov inizia, quindi, la seconda redazione, a sua volta modifica da una terza completata nel 1937; le revisioni dell’opera, però, continuano fin quando, a quattro settimane dalla sua morte, lo scrittore, nel 1940, congederà la quarta stesura.
Come però già detto, dovranno trascorrere più di venticinque anni prima che “Il Maestro e Margherita” veda la propria pubblicazione.
Inizialmente, nel novembre del 1966 e nel gennaio del 1967, ne è stampata, sulla rivista Moskva, una versione sensibilmente censurata, per poi, sempre nel 1967, essere messa sul mercato, dalla casa editrice Posev di Francoforte, una versione completa.
Accadeva così che, dopo circa un quarto di secolo dalla sua ultima stesura, nel 1967, veniva dato alle stampe, postumo, il capolavoro di Bulgàkov; un romanzo che avrebbe segnato la storia della letteratura non solo Russa, non solo del ‘900, ma mondiale.
Partendo dai grotteschi insegnamenti di DescrizioneNikolaj Vasil’evič Gogol’ (indimenticabili le sue “anime morte”) e attingendo dalla tradizione europea, che dal Faust di Goethe arrivava sino alla rivisitazione della buona novella neotestamentaria (ipotetico preludio a “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” di José Saramago), Bulgàkov, con un innovativa unicità di scrittura , era riuscito a creare un’opera perfetta e universale, esatto equilibrio di satira, denuncia sociale e politica, riflessione etica e teologica, critica alla censura e all’èlite letteraria dell’epoca identificata nella Massolit.
Ebbene, al Teatro Mercadante è andato proprio in scena “Il Maestro e Margherita”, nella riscrittura curata da Letizia Russo e la regia di Andrea Baracco, (con la produzione del Teatro Stabile dell’Umbria e il contributo speciale della Brunello Cucinelli S.p.a.).
Va da subito detto che rapportarsi con simili testi è impresa ardua ma soprattutto rischiosa, stante il rischio di scivolare sulle tavole del palcoscenico.
Non è raro, infatti, che al cospetto di taluni romanzi, nell’atto della trasposizione teatrale o cinematografica, vengano deluse le attese di chi, letta e amata l’opera, nella meravigliosa e impagabile concessione che la letteratura offre alla fantasia, si è costruito nella propria immaginazione la personale messa in scena, disegnando nella mente luoghi, costruendo edifici, arredando stanze, vestendo personaggi, animando visi e corpi, ascoltando musiche, assaporando odori, vivendo, con l’impersonificazione, emozioni …
E a ben vedere, quanto andato in scena al Mercadante non ha deluso le aspettative del pubblico presente, affascinato dalla ben ri-costruita rappresentazione.
Una versatile e funzionale scenografia (a cura di Marta Crisolini Malatesta e con luci di Simone De Angelis) di porte spazio-temporali, dalla scarna ambientazione urban, ha, infatti, garantito un rapido cambio di quadri all’interno dei due atti producendo, così, una velocità di movimento tale da snellire e rendere impercettibili le tre ore di spettacolo.
La quasi totale mancanza di suppellettili e oggetti scenici è stata compensata da scomposte informi effigi e da scritte sui muri fatti lavagna che hanno reso il circoscritto palcoscenico polifunzionale, perfettamente adatto a ogni scena nel loro essere ora claustrofobiche, ora cornice per fermo immagine da quadro sacro cinquecentesco, ora evocative e bibliografiche come nel “Liberati dal maligno gli uomini sono rimasti maligni” (di Mefistofele dal Faust di Goethe).
Su tale sfondo i protagonisti, coerentemente con l’intenzione del tutto, si sono svestiti di qualsiasi abito patafisico (in particolar modo l’accolita di Woland) per indossarne di più posati con punte di dandismo e di gotico contemporaneo (Woland e Korov’ev/Azazello su tutti).
Michele Riondino, con un passo claudicante da diavolo zoppo, lontano da quello di Alain-René Lesage e più vicino ad un Aguirre di Klaus Kinski o a un Hank Quinlan di Orson Welles cinematografico, ha caratterizzato, rivisitandolo, un giusto satana, al pari antico e moderno, nel disegnarlo ai limiti del fumetto d’autore da DC Comics, tra un esegetico necessario ispiratore dell’agire dell’essere umano in quanto uomo e un riabilitato ed effettivo status da letterale Śāṭān veterotestamentario, mostrando anche un’atletica fisicità da danzatore animale nella riuscitissima cornuta galoppata.
Con lui, Francesco Bonomo (Maestro/Ponzio Pilato), Federica Rosellini (Margherita) e con (in o.a.) Giordano Agrusta, Carolina Balucani, Caterina Fiocchetti, Michele Nani, Alessandro Pezzali, Francesco Bolo Rossini, Diego Sepe e Oskar Winiarski, hanno tutti assolto, con scolastica maestria, al precipuo ruolo assegnato, senza mostrare né debolezze né imperfezioni.
Un unico appunto al mancato nudo integrale di Margherita compensato, però, dall’ottima sostituzione nella parte del “volo” della scopa con un’altalena …
Come cameo, in aggiunta alle musiche originali Giacomo Vezzani, una forse troppo scontata “Sympathy for the Devil” e una “Magneto” di Nick Cave and the Bad Seeds, didascalica per testo e musica.
foto di scena Guido Mencari