Qualunque discorso si voglia imbastire sull’evoluzione dell’hip hop, questo non potrebbe lasciar fuori lui, Sage Francis. Piccolo e bianco (che, in altri ambiti, sarebbe come dire “piccolo e nero”), Paul (aka Sage) Francis è più veterano di quanto la sua età – 27 anni – lasci intendere: in età da nostra scuola media l’emo-rapper (termine coniato apposta per lui da alcuni) era già invischiato in mc-battles dalle sue parti, in quel Rhode Island che, oltre ad essere il meno esteso degli stati dell’unione americana, è un’area dalla tradizione hip hop praticamente inesistente.
Ed è con questo assiduo e precoce training – che ha ricevuto una svolta decisiva dopo aver assistito (a 12 anni, accompagnato dai genitori) a un concerto dei Public Enemy – che Sage ha costruito la sua attuale solida reputazione, fatto incetta di riconoscimenti e messo su tour di successo senza alcuna struttura promozionale al di fuori di sè, nonostante le pessime attrezzature a disposizione e il tempo portatogli via da quegli studi che lo hanno portato fino al considerevole traguardo di due diplomi universitari in comunicazione e giornalismo. Componenti apparentemente “diminutive” che hanno avuto l’effetto di indirizzare Sage sulla componente testuale dell’hip hop, nell’economia della quale il bagaglio scolastico è stato un fattore determinante per compensare una limitata vita di strada e incrementare comunque il gettito e la portata della propria fonte narrativa.
Grazie a questo impianto concettuale l’irrequietezza di Sage, ponderata da una dinamica espressiva spoken word, può non degenerare in un impulsivo tazebao populista ma tradursi nella confessione di un intellettuale che avverte, dopo attenta riflessione, lo strisciante tradimento dei valori del proprio Paese da parte delle stesse istituzioni. L’incendiarità dei testi non è una cluster-bomb buttata a casaccio ma l’esito di una miccia ben congegnata, “bomba intelligente” in quanto pervasa di una consapevolezza che sa trascendere la propria militanza e farsi potenziale voce di un dissenso diffuso e generalizzato.
E’ anche così che le corde vocali di Sage possono vincere il serio rischio di permanente deterioramento di alcuni mesi fa e continuare a vibrare più forti e “pesanti” di chiunque altro, come quando urlava “I go to Fugazi shows requesting Minor Threat songs”. Ed è ancora così che Sage può permettersi di bussare alla porta di Reanimator, alias, Danger Mouse, Sixtoo e altri per commissionare beats e campioni, o a quella di un Will Oldham – l’ultimo con cui avreste immaginato il nostro in combutta – in cerca di chitarra e voce; pubblicare un mese dopo il famigerato 11/9 (in MP3, senza ancora aver fatto un album vero e proprio) l’iconoclasta ‘Makeshift Patriot’, con tanto di field recordings da Ground Zero com’era 5 giorni dopo; spaccare le ossa dei tradizionalisti nel giro della anticon ma omaggiare la old-school come Non-Prophets (in compagnia di Joe Beats); venir corteggiato e contrattualizzato, primo rapper nella storia, da una label avulsa a tale contesto, ma forte, come la Epitaph.
La storia e la sostanza di “A Healthy Distrust”, il maggior compimento di Francis a tutt’oggi, è scritta in questi episodi, come anche la copertina di forte impatto può testimoniare. Ed è una storia che si materializza nella forma di canzoni che vanno oltre la negazione dei canoni stilistici dell’hip hop, oltre la semplice non-music, che rompono ogni indugio e ignorano ogni pausa, aggredendo fin dall’incipit, imperniando il loro vigore – più che sulla velocità – sull’ossessività incessante del flow, sì da configurare i 3/4 d’ora e passa dell’album come un allucinato tunnel in cui Sage scodella, in tutto il suo orrore e le sue contraddizioni, un’attualità che deroga anche a quanto concesso dalla fiction. Un invito ad avere “una sana sfiducia”, ma il bersaglio di questa non è affatto Sage…
Autore: Bob Villani