Li attendevo al varco (sicuramente con i denti meno digrignati dei nerd indirockers… ma con l’affezione di un semplice cliente). Li attendevo con le mani conserte e il piede nervoso. Pesa l’aspettativa dopo due album fertili di mondi densi e di racconti profumati come “Sussidiario…” e “La moda del lento”; pesa ancor più la responsabilità del complesso di Montepuciano dopo l’ennesimo cambio di line-up con annesse dimissioni, seguenti la fase di registrazione (o causate da quest’ultima?), della parte più elettronica della band; avevo paura dei nuovi Baustelle dopo la scelta quanto meno “coraggiosa” della collaborazione primaverile con Syria nella cover gainsburghiana “Bonnie & Clyde” (nella quale Syria avrebbe interpretato la parte di Brigitte Bardot………………………………………………………………………………………).
Temevo quest’album con la stessa intensità con il quale lo attendevo.
L’impatto è soft: la prima traccia strumentale sembra il ponte più consono al trapasso tra vecchie e nuove sonorità baustelliane con i marcati richiami all’”Arrivederci” che chiudeva l’album precedente. Risentire il falsetto luonge di Rachele mi conforta, ma intuisco che “cronaca nera” è soltanto una carezza prima della sferzata chitarrica che introduce un suono e un album deviato rispetto alla traiettoria a cui eravamo abituati.
…Che a pensarci bene le differenze non sono così traumatiche tanto più se si pensa a quanto fosse prevedibile un cambio di rotta dopo due album tanto omogenei. È evidente che la parte elettronica sia stata ridimensionata ma il suono e la musicalità dei versi in riverbero sanno essere fedeli e tradizionali senza essere ripetitivi o banali. Non mancano quindi le influenze beat, il cantautorato italiano e francese e i richiami alle colonne sonore del cinema italiano ’60 ’70 (i primi secondi di “Revolver” sono un’evidente citazione de “La notte più lunga del diavolo” di A. Alessandroni), e ciuffi di new-wave.
“La malavita” quindi: chè bastano poche tracce per capire che non ci sono più le svedesi in vacanza, tanto meno le minigonne pallide. Restano d’altra parte racconti sporchi e magri, storie di cronaca nera, si direbbe. Racconti, quindi, di ultimi attimi vissuti e vivibili, racconti di donne che respirano gas o che possono uccidere, vite violente che fanno “sesso col revolver” o che subiscono le mode… c’è poca giovinezza nei testi; anzi, c’è poco della adolescenza erotica di provincia e del sapore intellettuale boheme; l’erotismo è una sfumatura lieve e violenta, comunque una sfumatura in questo terzo album. Si parla di uomini emarginati e indifesi (“il corvo Joe”, “Sergio”), di esseri deboli in preda alla società, in preda alle persone. Esistenze deviate e minime; racconti di vittime dei pregiudizi della gente, della insensibilità delle mode (“a vita bassa”), degli stereotipi vincenti e ottimistici della società consumistica; racconti di esseri umani violenti prodotti del quotidiano e del “futuro anonimo”.
Puzza della sociologia di Durkheim e di cronaca regionale e di assistenti per minori a rischio, “La malavita”.
Scivolano e si sciolgono le melodie e la metrica del cantato, le armonie romantiche e i ritmi essenziali, i testi sinestetici (“Sergio”, per esempio) e le parole che ritornano e cozzano tra loro e si ripetono come ha insegnato la poesia di Dino Campana, i singhiozzi, le pulsazioni vocali. E, mentre scorrono i titoli di coda su una romantica sezione di archi, capisci che gli undici racconti cantati in realtà sono un collage per niente casuale, un’unica sceneggiatura, un’unica debolezza che vive in tutte le undici vite a rischio, vite violente che suonano evidentemente meno yè-yè de “la moda del lento” e meno nostalgiche del “sussidiario”. Un album quindi niente affatto bohémienne bourgeois, ma più umano e antiestetico. Mi ha commosso episodio dopo episodio… fino all’ultima frase (che si apre ad un probabile lieto fine) che nella maniera più semplice e pop sussurra “la salvezza (…) sei tu amore. E così per sempre vivere”.
Autore: Erik Chilly