Famosi agli inizi del 2000 per alcune azzeccatissime canzoni pop che hanno fatto il giro d’Europa e anche nel mondo, i Travis sono poi progressivamente scomparsi dalla scena mainstream quando, dopo Sing e Why Does it always rain on me?, avevano fallito alcune mosse mettendo su un album di buon livello come 12 Memories ma senza hit tali da far loro scalare le classifiche.
Il tonfo vero e proprio è stato poi A Boy with No Name, prova incompiuta e francamente incolore, prevalentemente acustica ma senza convinzione, che li ha fatti dimenticare al grande pubblico. Con Ode to John Smith l’intento è forse di far tornare la memoria, e sicuramente molti dei pezzi sono convincenti e l’album nel suo complesso rappresenta un passo avanti rispetto al precedente.
Ma mancano ancora pezzi trainanti godibili come quelli che hanno reso i Travis famosi, anche se l’album, va detto, non contiene sbavature: sin da Chinese Blues, e poi con J.Smith, si capisce che i Travis vogliono dimostrare qualcosa, e perciò imbracciano di nuovo chitarre elettriche e formazione al completo, riempiendo musicalmente tutti gli spazi possibili e costruendo canzoni efficaci. In più, si aggiunge una vena toni cupi e malinconici che, discostandosi dall’allegria delle loro canzoni più famose, di sicuro non guasta. Certo, si parla sempre di un pop raffinato ma non di alto livello tecnico, capace di costruire melodie facili ma non composizioni sopraffine.
Dello stesso stile sono le altre canzoni dell’album: molto vicina ai tempi andati è Last Words (forse troppo, l’intro ricorda Sing palesemente), mentre si ricalcano i Beatles e i primi Stones (da sempre fonte prima della loro ispirazione) nel ritmo di Long Way Down e Friends, ma per fortuna verso la fine dell’LP ci attendono i brani forse migliori, Get Up, Quite Free e Song to Self, dinamici, energici a sufficienza anche se non fanno proprio saltare dalla sedia, fino alla notevole ballata Before you Were Young, forse il pezzo più bello, in cui il vocalist arriva a toni inediti di profondità e interpretazione degni di nota.
Si sente nel complesso che la band ha forse perduto il tocco magico, la capacità di cogliere la melodia giusta per incidere, ma Ode to J.Smith è comunque un album onesto, in cui i quattro ce la mettono tutta, e la voce di Francis Healy è sempre di alto profilo, capace di disegnare inquietudini come momenti più arrabbiati o al contrario dolci cantilene. Non li riporterà al successo, probabilmente, ma almeno non è una seconda battuta d’arresto.
Autore: Francesco Postiglione