La fonte d’ispirazione si riconosce subito. Chiaramente. La tendenza invece strada facendo. Provate a mischiare tanto Black Sabbath e un pizzico di Nickelback, unite l’attitudine metal ad un’espressione rock e avrete questo disco. Piacevole, senza dubbio, ma che non offre particolari spunti di rilievo. La terza volta che l’ho ascoltato, non vedevo l’ora che finisse. Un peccato. Ritengo che il debutto per una etichetta importante andasse preparato meglio, specie considerando l’esperienza di un album (“Oui est la rock”) e un ep alle spalle.
James Rota detto il reverendo (chitarra e voce dissonante stile Ozzy) e la bionda Emily Burton (chitarra) mantengono le fila del progetto da quando si sono incontrati al college e hanno deciso di spostarsi da New York a Los Angeles dove hanno trovato un signor batterista (John Oreshnick) e soprattutto sono riusciti a tirarsi dentro per completare la sezione ritmica Janis Tanaka una delle prime scatenate L7.
Presupposti del genere meritavano ben altra sorte. Un peccato, lo ripeto. Perché a sentire la tenace opener (“King”) mi attendevo uno sviluppo compositivo migliore. Invece no: la matrice resta la stessa, il livello del songwriting si abbassa. Proseguendo lungo minuti quarantuno tra riff scontatielli alla ricerca dell’apertura melodica (“Rollin’ On”) e brevi sussulti verso l’alto (“In The Mourning” e “Daughter Of The Damned”). Le canzoni sono tutte discrete se prese singolarmente, ma risentono di una certa fittezza monocorde. Messe assieme appesantiscono il prodotto e nemmeno la mano ai cursori di uno da Grammy Award come Nick Raskulinecz serve a risollevarlo. L’aver suonato con Danzig e Motorhead o Fu Manchu e The Datsuns lascia comunque intendere che ai quattro sarà concessa una prova d’appello. Poco male. Per il secondo grande risveglio mi sa che dobbiamo ancora attendere.
Autore: Antonio Mercurio