“Testimony” (2016) è l’autobiografia di Robbie Robertson (chitarrista e principale compositore del gruppo The Band), un libro feticcio per qualsiasi amante del rock’n’roll, degli anni ’60 e ’70, di Bob Dylan e tutti quei musicisti e artisti dell’epoca. Il film “Once We Were Brothers” (2019) è una specie di trailer del libro, appaiono i membri di The Band (sono registrazioni antiche, a parte Robertson e Garth Hudson, gli altri tre sono morti) e in qualità di fans illustri: Martin Scorsese (ne è anche produttore), Bruce Springsteen, Peter Gabriel, Eric Clapton, Taj Majal, Bob Dylan e molti altri…
Immaginiamo solo per queste righe che i cinque ragazzi di The Band non si fossero mai incontrati, sottraendo alla loro carriera alcune delle storie rispolverate in questi ultimi progetti, iniziamo:
Nessun tour elettrico di Bob Dylan del 1965/66. In quegli anni, i giovani musicisti di the Band si chiamavano ancora The Hawks (da quando suonavano rockabilly con Ronnie Hawkins in su e giù per gli Stati Uniti) e sopportarono Dylan nel momento in cui decise di suonare rock’n’roll liberandosi dall’immagine di folk singer che il mondo gli aveva appioppato. “La cosa più assurda è che la gente compra i biglietti”, commentava Bob infilandosi rapidamente in un’auto con Robbie Robertson, dopo la dose di insulti e fischi a cui erano sottoposti durante ogni concerto. Levon Helm (batteria, mandolino e voce di The Band) abbandonò il gruppo per lavorare su una piattaforma petrolifera nel golfo del Messico, “non mi piace come stiamo suonando, non mi piace questa gente, non voglio essere il gruppo di nessuno”, comunicò una notte a Robertson e partì.
Per The Hawks e Dylan la partita si concluse dopo gli altrettanti insulti del tour europeo (senza Helm alla batteria ma con tutti gli altri) e le incisioni di Blonde on Blonde (1966). Bob rimediò un’incidente in moto ed una lunga convalescenza da cui si risvegliò in una delle sue varie nuove vite, con una moglie e due figli nelle campagne di Woodstock intorno a New York. Robbie Robertson, Richard Manuel (tastiere, voce e batteria), Rick Danko (basso, violino e voce) e Garth Hudson (tastiere, sassofono e fisarmonica) arrivarono poco dopo, insediandosi a qualche chilometro: Big Pink, un casone in mezzo alle campagne con una facciata tutta rosa. Chiamarono Levon Helm che ritornò dalla piattaforma petrolifera e si unì al resto degli amici, meglio dire fratelli, con cui suonava da quando aveva 17 anni, per condurre una vita bucolica a suon di musica, football e poco altro; nel seminterrato della casa montarono un primordiale studio di registrazione e nacquero le canzoni del loro primo disco: Music From Big Pink (1968). Più tardi arrivarono l’alcol, le droghe e gli incidenti d’auto, le compravano con i soldi della Capitol, Albert Grossman, manager di Dylan, li mise sotto contratto come The Crackers, ancora non si erano preoccupati di scegliere un nome.
In una realtà parallela, senza The Band a sostenere quel tour e un Dylan non particolarmente disinvolto a suonare con un gruppo elettrico, Bob avrebbe potuto lasciarci la pelle per finire ai ventisette anche lui, magari con un’indigestione di anfetamine, il suo stimolante preferito di quegli anni. Giusto a quell’età lì quindi non visiterebbe quotidianamente la casa di Big Pink per scrivere e suonare canzoni da vendere ad altri artisti, Robbie Robertson privato del suo ticchettare sulla macchina da scrivere, non si appunterebbe idee per la stesura dei suoi primi pezzi e potremo salutare per sempre “The Weight”, persa in quella realtà parallela dove i cinque musicisti non si incontrarono mai. Nessun The Basement Tapes (le registrazioni datate 1967 nella casa di Big Pink con Dylan e The Band, ancora The Hawks, il disco uscì dopo 8 anni nel 1975. Nel 2014 esce: The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes Complete, un resoconto molto più completo del precedente), più tardi, Planet Waves (quattordicesimo disco in studio di Dylan registrato con The Band nel 1974) e soprattutto Before The Flood (il resoconto del tour con The Band, posteriore all’uscita di Planet Waves, senza nessun pezzo del disco ma con una rivisitazione dei classici di Dylan e The Band come mai avevano suonato e suoneranno. Nulla a che vedere con la gira degli insulti del 1965/66, ascoltate la “Like a Rolling Stones” del The Bootleg Series Vol.4: Live 1966 at the Royal Albert Hall e quella di Before The Flood, a parte Helm sono gli stessi musicisti, video 1).
Eric Clapton non avrebbe maturato la decisione di mollare Jack Bruce e Ginger Baker dopo aver visitato Big Pink e conosciuto i cinque rustici musicisti, così diversi da lui e dagli ambienti della swinging London. Correremo il pericolo di vederlo ancora suonare “Sunshine of Your Love” con i Cream ai giorni nostri e non solo per alcuni concerti, come successe nel 2005 per la reunion alla Royal Albert Hall.
Intorno al ’68, quando usciva Wheels Of Fire (terzo album dei Cream) e dopo aver ascoltato Music From Big Pink, Eric andò a trovarli a Woodstock, pensava che Robertson, l’unico conosciuto, chitarrista e canadese, non fosse stabile nella Band e che gli altri fossero del Delta del Mississippi. Lui invece era preoccupato che Clapton non si sentisse a suo agio, nella Band nessuno era particolarmente socievole, la vita che facevano nella casa di Big Pink era noiosa, avevano accompagnato Dylan in trincea durante la svolta elettrica ma erano lontani dalle sue fantomatiche canzoni di protesta, dalle ribellioni del ’68, dagli hippies…L’immagine della copertina di Music From Big Pink fu un dipinto dello stesso Dylan ma per la foto interna chiamarono i membri delle loro famiglie, giusto per ribadire che erano grati dei sacrifici fatti per crescerli e non avevano un bel nulla da contestargli. Questo vedere le cose all’antica aveva i suoi effetti anche nella musica, Robertson ricorda: “(…) suonare in cinque nel seminterrato o in assetto acustico in salotto, aveva influenzato decisamente il nostro approccio musicale: si trattava di un nuovo equilibrio tra voci e strumenti. Se non riuscivi in modo adeguato, qualcuno rischiava di suonare troppo forte o di uscire dalle righe. Questo approccio era antico come il mondo ma aveva poco a che fare con il modo di suonare di tanta gente a quei tempi. Alzare il volume era d’obbligo, ma adesso eravamo approdati a un punto in cui la musica troppo alta era come il cibo grasso, nuoceva alla salute (…), ne uscì un disco fuori del suo tempo, vintage ancora prima che la parola andasse di moda. Quando arrivarono nei veri studi di registrazione fu “(…) sconcertante. Eravamo rimasti rintanati lì sotto per tanti mesi, isolati dal mondo esterno (…)”, le prime prove con l’assetto dato dai tecnici non funzionarono “(…) non possiamo suonare con questa configurazione. Abbiamo bisogno di guardarci (…)” e ribaltarono tutte le posizioni intorno alla batteria di Levon, con microfoni di bassa qualità su ogni strumento, un suicidio per i tecnici e inspiegabilmente un trionfo per le orecchie.
Clapton dopo averlo ascoltato mise in dubbio la sua identità musicale e viaggiò alla casa di Big Pink, i suoi pantaloni a zampa di elefante non c’entravano un granché con i vestiti da lavoro di quegli strani tipi, non facevano neanche jam, suonavano solo le canzoni che scrivevano. Anni dopo dichiarò che era andato per entrare nella Band, Robertson ci scherzò su: “per fare la seconda chitarra o rubarmi il lavoro?”, Clapton non rispose.
George Harrison non avrebbe scritto “All Things Must Pass” con conseguente scomparsa del suo primo lp solista omonimo post The Beatles. Robbie Robertson invitò il beatle timido a trascorrere un po’ di tempo a Woodstock, sdoganò “Music From Big Pink” in Inghilterra, suggerendolo alla stampa come “il nuovo sound che arriva dall’America” ed era stato il motivo per cui aveva ripreso in mano la chitarra e appoggiato il sitar (che suonava costantemente dal ‘65). L’ispirazione per “All Things Must Pass” arrivò da “The Weight” con i suoi ritmi country che sfiorano il gospel e la sua struttura cadenzata ricca di pause e ripartenze, Harrison la scrisse immaginando alla voce Levon Helm. Tornò quindi dagli States con questa e un’altra nuova canzone, stesa a due mani con l’amico Bob Dylan, “I’d Have You Anytime” che aprirà appunto All Things Must Pass (1971).
Quando a Londra iniziarono le funeste registrazioni di Let It Be (1970) nei Twickenham Film Studios (in arrivo un nuovo documentario diretto da Peter Jackson con immagini mai viste di quelle session, “The Beatles: Get Back”), il clima con i tre compagni di gruppo non era effervescente come quello che aveva respirato durante il soggiorno a Big Pink, “Ascoltare le storie di George (sulle tensioni tra i membri di The Beatles) confermava che la nostra decisione di ‘non dare troppo nell’occhio’ poteva essere una scelta saggia (…) Ma presto avremmo imparato che nessuno può dirsi totalmente a prova di bomba quando si tratta di fama e successo (…)”, ricorda Robertson.
Harrison arrivò a suonare “All Things Must Pass” con gli altri tre beatles suggerendo un feeling più vicino a The Band, John Lennon abbandonò la chitarra per l’organo Lowrey, una delle tastiere preferite da Garth Hudson ma non era abbastanza, ormai la solidarietà fraterna che aveva legato il gruppo in giovane età (Tutti Per Uno era il sottotitolo italiano del film Help del 1965) era svanita, mentre dall’altro lato dell’oceano, dentro the Band, rimaneva intatta, “(…) eravamo tutti conquistati dal fascino di quest’atmosfera di creatività avventurosa e spensierata. Le canzoni sgorgavano a fiotti (…)”.
Seguendo il flusso in una villa tra le Hollywood Hills in California, ricrearono uno studio di registrazione dove dare sfogo al loro estro, nacque The Band (1969), chiamato il brown album sulla falsariga del white album (The Beatles, 1968), un concept i cui temi erano incentrati su persone, luoghi e tradizioni, trovando una perfetta corrispondenza nella musica. «The Night They Drove Old Dixie Down», «Up on Cripple Creek» (video 2) tra le più “famose”, una rinfrescata alla tradizione americana, colorandola di nero con rhythm’n’blues e ritmi funky. Non a caso è inserito in quasi tutte le liste dei migliori dischi rock e per chi ha bisogno di punti di riferimento, uno dei capostipiti della etichetta con cui vengono catalogati Ryan Adams, Avette Brothers, Wilco, My Morning Jacket etc…chissà se la rivista Rolling Stone li avrebbe classificati come Americana nella realtà parallela. (video 3)
Nessun film/disco di The Last Waltz (1978). Dal Winterland di San Francisco il 25 novembre del 1976, The Band salutava le scene, dissolvendosi in una nube di artisti generazionali uniti per l’occasione. Un evento durato dalle cinque di pomeriggio alle due e un quarto della notte, cinquemila persone, cena di Thanksgiving con tacchino e salmone in tavoli apparecchiati di bianco mentre un’orchestra suonava il valzer, il palco allestito con il set della Traviata di Verdi ed i lampadari utilizzati in Via con il Vento. Nei camerini: “(…) le pareti erano ricoperte di nasi di plastica. Un nastro mandava in sottofondo i rumori di sniffate e un tavolo al centro della stanza era colmo di specchietti, lamette, cannucce a altri oggetti correlati alla cocaina (…)”. Neil Young arrivò al microfono con le narici ancora imbiancate, ad Eric Clapton (video 4) si slacciò il cordone della chitarra durante un solo, riacciuffato abilmente da Robbie Robertson; con Van Morrison (video 5) non avevano neanche provato ma per scalciare così alla fine di “Caravan” doveva essere abbastanza contento del risultato, noi anche. I ragazzi di The Band invitarono i musicisti a cui erano stati più vicini durante la loro carriera, avrebbero chiuso una porta per affrontare un nuovo cammino, non era escluso che tornassero a suonare insieme ma con Robbie non successe mai più.
Bob Dylan, Muddy Waters, Joni Mitchell, Dr John, Paul Butterfield ma anche Ronnie Hawkins, con cui avevano iniziato ed un mezzo sconosciuto in mezzo a tutti quei big, apportarono il loro contributo all’ultimo valzer del gruppo; Martin Scorsese riprese le nove ore in condizioni precarie, il suolo di legno non era adatto per la stabilità che richiedevano le telecamere, specie con cinquemila persone muovendosi. Andò tutto alla grande, il film uscì solo nel 1978 per i troppi impegni del regista, “la fine di un’era è l’espressione che molti usano riferendosi al concerto del 1976. I sogni degli anni sessanta e dei primi settanta erano svaniti ed eravamo preparati a un’apocalisse, a una rivolta, a un cambio della guardia. Gli Usa, la Cina, la Russia stavano testando tutti le armi nucleari.” Cosi Robertson scrive in Testimony, gli ultimi anni con i suoi fratelli di gruppo erano stati drammatici, i vizi avevano corrotto la creatività, dopo “Stage Fright” (terzo disco della Band, 1970, è appena uscita una nuova riedizione accompagnata da un concerto alla Royal Albert Hall del 1971), l’eccitazione di essere un membro di The Band era stata sostituita dalle dipendenze: alcol, eroina, cocaina…Robertson arrancò cercando di scrivere buone canzoni e distraendo inutilmente il resto del gruppo dagli eccessi, riuscì solo a metà nella parte compositiva (da Cahoots, 1971, non raggiunsero più i picchi creativi dei primi tre dischi), in quella umana, la separazione fu l’unica strada.
autore: Lorenzo Donvito