A distanza di qualche anno dall’ultima pubblicazione di un vero disco di inediti, torna a farsi vivo Bonnie Prince Billy, con un lavoro che prosegue sulla stessa linea country folk elettroacustica più tradizionale iniziata dopo la fase folk psichedelica a nome Palace negli anni 90, e quella new folk minimale a nome Will Oldham ad inizio anni zero.
Le canzoni di Bonnie Prince Billy mostrano la solidità e l’innocenza tipiche dei canti liturgici, degli stornelli d’osteria, delle filastrocche per bambini e dei balli di campagna, esprimendo spesso, attraverso un linguaggio semplice e schiettamente agreste – che forse, chissà, farà storcere il naso allo studente istruito e benestante del College americano – un forte fatalismo di impronta biblica, con proverbi e paradigmi da cui attingere le lezioni giuste per stare al Mondo nel modo migliore, anche senza aver studiato, dalla parte dei giusti e senza cacciarsi nei guai.
Una musica conservatrice, dai toni miti, lontana dal rumore delle metropoli, dalla tecnologia e dalle mode musicali, dalla modernità insomma e dalla sua malizia, che paradossalmente, però, finisce poi per essere alternative, proponendo modelli di vita radicalmente diversi ed in controtendenza.
Prendiamo ad esempio ‘Dream Awhile‘, un lento a due voci maschile femminile dai toni eleganti della giga britannica, che dice così: “quando ho un problema so cosa fare / io vado a letto e sogno un po’, ed ecco che qualcosa viene fuori / quando chiudo gli occhi io trovo un altro Mondo”. Non c’è amarezza o disperazione per i mali della vita in questa canzone, ed il Mondo parallelo in cui rifugiarsi dalle preoccupazioni non è il paradiso artificiale della droga o l’effimero consumismo, ma una bella dormita, sognando. Che detta così può sembrare retorica, semplicistica e lontana dall’epoca moderna, ma il punto è che nel cantautorato di Billy appare chiara la portata politica di una radicale proposta alternativa di vita, un cambio di paradigma, un recupero della semplicità agreste e di una nuova morale dei rapporti che parte dal passato, perchè in fondo non è vero che l’ottimismo è sinonimo di superficialità.
Musicalmente, le 13 canzoni del nuovo disco non si discostano di una virgola dagli standard degli ultimi Wolfroy (2011) e Singer’s Grave (2014), dividendosi dunque in modo netto tra gradevoli country folk in maggiore dal ritmo appena sostenuto, ballabile, con una formazione standard chitarra basso batteria violino e rinforzi qua e là di banjo e chitarra slide, contrapposti a stornelli intimi per voce, chitarra acustica e qualche eco sullo sfondo tuttavia mai propriamente malinconici come raccomandava invece lo standard dell’epoca new folk, di cui Bonnie Prince Billy – che all’epoca si faceva chiamare Will Oldham – fu in primissima fila.
A rimescolare le carte poi la curiosa scelta di promuovere il disco attraverso il singolo folk ‘New Memory Box‘, diffuso però con tanto di videoclip in una versione remix hip-hop, niente male a dirla tutta, seppure lontana parente della versione presente nel disco.
L’impressione è che il barbuto musicista del Kentucky abbia trovato negli anni 20 una dimensione in cui identificarsi comodamente e da cui per ora non intende schiodarsi. La via delle collaborazioni con altri musicisti, diversi da lui, può giovare molto alla sua musica, spingendolo verso forme musicali più originali.
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autore: Fausto Turi