di Marco Sica
Da ragazzo restai affascinato dalle opinioni del clown di Heinrich Böll, un libro che ha rappresentato uno dei punti di crescita della mia formazione culturale letteraria, al contempo così amabilmente moderno e sospeso tra un linguaggio novecentesco statunitense e le codificazioni tedesche a me tanto care.
Hans Schnier, l’odore e il suo olfatto oltre il tatto come percezione della realtà
“È sempre penoso quando mi capita di vedere e udire cose non destinate ai miei occhi e alle mie orecchie, e quel mio mistico dono di afferrare gli odori attraverso il telefono non è affatto un piacere, anzi è un peso” … la percezione della malinconia “Tutti sanno che un clown dev’essere malinconico per essere un buon clown, ma che per lui la malinconia sia una faccenda seria da morire, fin lì non arrivano”.
Ebbene, il Teatro Stabile di Napoli ha ospitato al Mercadante “L’onore perduto di Katharina Blum”, rappresentazione tratta dall’omonimo romanzo del 1974 (proprio) di Böll, su adattamento di Letizia Russo e con la regia di Franco Però, per la produzione del Teatro Stabile di Napoli -Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e del TeatroStabile di Catania.
Un’opera questa che, a dispetto del titolo da feuilleton, analizza, con la cromatica lente dello scrittore tedesco, il ruolo del “quarto potere”, svestito della sua primaria funzione d’inchiesta e d’informazione (terzo ed imparziale super partes), per calzare i panni dell’autocelebrazione narcisistica e della dipendenza dalla classe dominante; il tutto deformato da quegli anni di contestazione e violenza culminanti nella Rote Armee Fraktion (RAF) della Banda Baader – Meinhof.
Lo stesso Böll scrisse un articolo “Will Ulrike Gnadeoder freies Geleit?” nel gennaio del 1972 su Ulrike Marie Meinhof. Sarà l’“autunno tedesco” sarà il “collettivo” della “Germania in autunno” (Deutschland im Herbst) su pellicola.
Senza scomodare Rainer Werner Fassbinder, Volker Schlöndorff, Alexander Kluge, Alf Brustellin, Bernhard Sinkel, Katja Rupé, HansPeter Cloos, Edgar Reitz, Maximiliane Mainka e Peter Schubert prima e Orson Wells e il suo Citizen Kane poi, gli organi di stampa e (più in generale) i media hanno da sempre fatto muovere le proprie rotative da una corrente alimentata dal potere, dal bisogno di produrre un giornalismo ad effetto o (nei migliori dei casi) da una partigiana ideologia, tradendo la propria vocazione, impiccando così il libero imparziale pensiero al siliquastro albero dell’opportunismo.
E perfettamente in linea con lo stile di Böll, in cui il tema drammatico vira sempre verso un ironico ed empatico apologo, quanto andato in scena al Mercadante ha saputo disegnare sia amari acquarelli di un giornalismo strumentalizzato e asservito tanto alla fame di notizie e di scoop quanto al potere politico ed economico, che invettive di condanna alla moralità spicciola e qualunquista. Lo stesso Böll dichiara: “…chi si serve pubblicamente delle parole mette in movimento mondi interi e nel piccolo spazio compreso tra due righe si può ammassare talmente tanta dinamite da far saltare in aria questi mondi…”.
“Portare in scena un romanzo – annota Franco Però – implica di poter contare su interpreti che incarnino appieno i personaggi concepitidall’autore, ed è stata per me una fortuna avere a disposizione un gruppo di attori – la Compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia – che ho immaginato subito nelle figure del libro. A loro si uniscono – finalmente sul palcoscenico dopo le tante esperienze cinematografiche e fiction televisive –il bravissimo Peppino Mazzotta e Elena Radonicich, attrice perfetta per il personaggio di Katharina Blum”.
E così, in un esatto e razionalista gioco di stanze e di porte, di luoghi e di tempo che hanno scandito il cambio di scene (di Domenico Franchi con i costumi di Andrea Viotti e le luci di Pasquale Marirecitano), la rappresentazione si è snodata e tessuta in due (non sentite) ore di forte e serrata recitazione dai ritmi e dal respiro a tratti claustrofobici, tesi, per un testo comunicato e interpretato da Elena Radonicich con giustezza, nel ruolo della protagonista Katharina Blum e con lei, non di meno, da Peppino Mazzotta in quello di Hubert Blorna, Ester Galazzi nei panni di Trude Blorna, Maria Grazia Plos in quelli di Else Woltersheim, Francesco Migliaccio di Erwin Beizmenne, Jacopo Morra di Walter Moeding, Riccardo Maranzana di Werner Tötges ed Emanuele Fortunati di Alois Sträubleder.
Oltre il visto, il messo in scena, il sentito e ciò che è apparso come evidente, tra le pagine e le righe del testo e della recitazione, sono emersi due spunti di riflessione importanti sotto il profilo etico e sociopolitico negli interrogativi inevasi: “Lo stato può fare qualcosa per proteggermi?” e “Si deve essere umani anche con chi è disumano?”, che rendono ancora più universale e senza tempo tutto quando andato in scena. Mentre il primo accentua la distanza tra cittadino e istituzioni, marcando e rimarcando forte il solco che la percezione (realtà?) segna in ogni uno di noi, orfano di un padre stato assente che lascia, al pari di Katharina Blum, i suoi figli non solo vulnerabili dagli strali del vivere sociale ma soprattutto diffidenti verso la bontà delle forme di governo, il secondo, al pari
del paradosso della tolleranza di Karl Popper, scava come regola d’or
o, negli ancestrali dubbi dell’uomo, tra etica e morale laica e religiosi precetti.
Riallacciandomi a Rainer Werner Fassbinder, è quasi naturale il passaggio a “La ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde, interpretato e diretto da Roberto Azzurro, inscenato al Ridotto del Mercadante.
Passaggio naturale (per lo scrivente) stante la fascinazione per il Querelle de Brest del regista tedesco.
Nel film, tratto dal romanzo di Jean Genet, Jeanne Moreau, nel ruolo di Lysiane, intona proprio un cantato tratto dal componimento, di Oscar Wilde:
“Yet each man kills the thing he loves
By each let this be heard,
Some do it with a bitter look,
Some with a flattering word,
The coward does it with a kiss,
The brave man with a sword!
Some kill their love when they are young,
And some when they are old;
Some strangle with the hands of Lust,
Some with the hands of Gold:
The kindest use a knife, because
The dead so soon grow cold.
Some love too little, some too long,
Some sell, and others buy;
Some do the deed with many tears,
And some without a sigh:
For each man kills the thing he loves,
Yet each man does not die”.
“La ballata del carcere di Reading” che fu scritta da Wilde a seguito dell’accusa a lui mossa nel 1895 di omosessualità e alla conseguente condanna, nel novembre dello stesso anno, a due anni di lavori forzati presso la prigione di Reading nel Berkshire, al ridotto del Mercadante, ha preso vita per bocca, gesti ed espressioni di Roberto Azzurro, equilibratamente contenute tra il pianoforte suonato dal vivo da Matteo Cocca, le minimali e giuste scene di Tata Barbalato, le luci di Carlo Russo e la produzione è di Ortensia T.
Un’ora circa carica di riflessioni con le quali Wilde inchioda il Cristo alla sua condizione di uomo e allo stesso tempo alza le mura della prigione oltre Dio e il suo sguardo “Ogni prigione costruita dagli uomini è costruita con mattoni di infamia, e ha sbarre affinché Cristo non veda come gli uomini mutilano i loro fratelli. Con sbarre macchiano la benigna luna e accecano lo stupendo sole, e fanno bene a nascondere il loro Inferno, poiché in esso accadono cose che né il Figlio di Dio né il Figlio dell’Uomo avrebbe mai la forza di guardare”, e pronuncia l’invocazione del figlio morente “Elì, Elì, lemà sabactàni?”, eterna questione teologica, avanzata con il crudo e intimo pensiero di chi è posto dalle avversità della vita innanzi agli ineluttabili interrogativi che la sensibilità e la ragione pongono.
Il biblico ed eucaristico Hallelujah introduttivo, poi, tracimando al pari del finale il testo originale, segna il ricongiungimento tra il terreno e il divino nel rito di comunione e sacrificio tantoché “se non per un cuore spezzato, in lui Cristo Signore potrebbe entrare? … la rossa macchia che fu già di Caino, divenne il nìveo sigillo di Cristo”.
“Il componimento poetico di Wilde – scrive l’attore e regista – è un grido di dolore appassionato, uno scritto crudo e sincero che ci restituisce un Wilde più umano, ma non per questo meno lucido nel denunciare la terribile esperienza vissuta in prigione. Un’esperienza che lo mette al confronto, nella convivenza con un condannato a morte, con il feroce e assurdo rituale dell’esecuzione capitale”.
“Scrivendo questo testo – prosegue Roberto Azzurro – Wilde maturò la sua riflessione su come tutti possiamo considerarci malfattori e su come tutti abbiamo bisogno di essere perdonati. L’ironia e il riso che hanno sempre accompagnato la sua opera lasciano qui il posto alla sofferenza, che non è mai grido sguaiato, ma solo lamento. Un dolore ancora più tangibile per un uomo come lui, abituato ai salotti esclusivi dell’Inghilterra vittoriana e piombato all’improvviso nel buio di una cella. Distrutto dalla fatica e dall’umiliazione, provato nello spirito e nel fisico, invecchiato e disperato, Wilde concepisce i versi della sua Ballata dove sembra non voglia accettare definitivamente non tanto che il carcere possa spezzare i cuori, quanto che possa ridurli in pietra”.
Roberto Azzurro ha portato in scena con sé un mattone che, se da un lato può simboleggiare tanto la durezza della pietra quanto la pesantezza della condanna o la solidità delle mura erette intorno agli uomini carcerati, al contempo può diventare pietra d’angolo sulla quale costruire la speranza nel perdono.