Una sagoma umana giace esanime a terra, spalle a un muro chiazzato del suo stesso sangue. Il volto sfigurato, e parimenti insanguinato, un fucile appoggiato al torace. “The End”, nel più inequivocabile e tragico dei sensi. Giocano duro gli Alien Army. Duro ma non sporco.
Al di là della copertina – comunque grossolanamente fumettizzata, niente a che vedere con l’ultimo Aesop Rock – le “milizie aliene” non cercano altri mezzi per impressionare l’ascoltatore che non siano quelli concessi loro dalla propria mostruosa tecnica a giradischi e campionatore (testimoniata, per ognuno dei suoi “soldati”, da un sostanzioso palmares di contest vinti, tour e collaborazioni eccellenti, oltre che da una luminosa carriera come singoli). Non si tratta però di un semplice rimirare a bocca aperta, spogliati di ogni minima possibilità di umana “partecipazione”, il talento iperbolico della italica crew (Zak, Skizo, Inesha, MicroMetz, Type10 e Tayone). La qual cosa, per dirla in tutta franchezza, conderrebbe ben presto al vicolo cieco degli sbadigli.
“The End” è un disco “aperto”, nel senso di accessibile, anche se tutt’altro che facile. Nonostante l’evidente “soggettività” del test, l’album è riuscito a guadagnarsi da chi scrive parecchi ascolti, finanche consecutivi. Potrà essere ‘Destroy’ o ‘Scratchoetry’ o ancora ‘Thronic Harmonic’ l’episodio più incisivo, più riuscito (ma quale non lo è?), più caratterizzante (macchè), non è questo il punto. I 50 minuti in onda nel preciso istante di produzione di queste righe sono, dal primo all’ultimo, sovra-standard, senza momenti di debolezza nè climax veri e propri. E senza neanche palesare sintomi di monotonia o inflazionamento. Manca del tutto la voglia di chiedere qualcosa di diverso, possa ciò essere anche un ortodossissimo MC.
I toni, come intuibile dalla premessa, sono decisamente cupi, minacciosi. Poco rassicuranti. L’angoscia attinge tanto dall’immaginario legato al “malvagio” urbanesimo moderno quanto dalla pur sempre inspiegabile dinamica dei fenomeni interiori. La problematicità come perenne dimensione di vita, ma senza retorica o auto-indulgenza.
I suoni? Bè, provate a pensare alla capacità di fare un caffè non bruciato pur caricando la macchinetta fino all’inverosimile di hip hop, funk, jazz. Tutti ingredienti “terrestri” che, acceso il fuoco, cozzano tra di loro, si disintegrano, si reimpatsano, nella loro miriade di frammenti, sotto forma di beat, scratch, samples come se piovesse, senza tregua, eppur ballabili e assimilabili senza che una qualche forma di “ermetismo sonoro” ve lo precluda. Il caffè è servito. “Alieno”, ma a portata di mano…
Autore: Roberto Villani