Inizio solenne, traccia intro che arpeggia, un fioco sguardo nel buio sulla luminescenza di una fiammella pronta a deflagrare nel giro di pochi secondi…
L’innesco arriva subito, non c’è tempo per pensare: “Everybody’s going to the party / have a real good time”, recita la cantilena, triste e martellata dalle raffiche di chitarra, prima che il soundstorm against war della band riproduca l’assalto, pantomima irachena desertica e disorientata, lettera-song efficace che sgancia sul campo di battaglia il messaggio rivolto al caro mr George Dabliù Bush. “Why don’t presidents fight the war?” già, perché i presidenti non combattono? “why do they always send the poor?” e allora, mr Bush, a quando una risposta, magari accompagnata dal suo caro, vecchio country oldschool?
Si tratta delle frasi più dirette di “B.Y.O.B”, primo brano vero e proprio del nuovo lavoro dei System of a Down, scaglionato in due dischi per l’ingente, impegnativa resa d’ascolto: “Mezmerize” dura poco più di mezz’ora, puro distillato di moderno rock: i nostri non perdono l’attitudine al pastiche, amalgamando influenze e aromi etnici, l’Armenia e gli odierni U.S.A., spirito da guerriglia punk, potenza e armonizzazioni vocali, lasciando contemplare distese melodiche di grande effetto e improvvise trovate ritmiche.
L’ascolto è guidato lungo bruschi, violenti passaggi, impennate, stacchi, adagi confortanti, sfuriate: ascoltare, per prova e suffragio, l’articolazione perfetta di “Radio/Video”, con una danza in forma di marcia che profuma di est europeo, e un testo stranito che argomenta sul flusso comunicativo mediale: “Hey man, look at me, I’m on the video”, ripete ossessivamente Serj Tankian, coadiuvato alla voce in gran parte del disco dal chitarrista Daron Malakian.
“Violent Pornography” è un’altra invettiva lanciata a mille contro le immagini deviate e fittizie della tv, “fuck/turn off your tv/can you say brainwashing /it’s a not stop disco”.
E così si passa a tematiche più alte, sottolineate da pennate e arpeggi, librati su spazi ampi e piani, “Do we, do we know/When we fly/when we, when we go/Do we die”, come il titolo, “Question”, anticipa senza equivoco. “Sad statue” chiama in causa proprio la statua della libertà, simbolo triste della “generation that didn’t agree”: la band tiene la testa alta, fiera, e non disdegna sortite oltreconfine, ancora più oltre il crossover originale che le compete da tempo, quando s’immerge in atmosfere intessute di elettronica nella riuscita “Old school hollywood”.
Il disco chiude con il fiato della consapevolezza dolente, “Lost in Hollywood”, smarrito ma presente: il prossimo capitolo, “Hypnotyze”, è atteso per fine anno. Nel frattempo, tre consigli riguardo questa prima parte: ascoltare, ascoltare, ascoltare.
Autore: Alfonso G. Tramontano