Per il loro secondo album, Alarms in the Heart, che segue il fortunatissimo e acclamato Shallow Bed del 2012, i talentuosi Dry the River hanno fatto le cose in grande: in produzione si vedono nomi come Charlie (Florence and The Machine, Ed Sheeran), Paul Savage (Mogwai, Franz Ferdinand) e Peter Miles (We Are The Ocean, Futures, The King Blues) mentre alcuni arrangiamenti sono stati curati da Valgeir Sigurðsson (Sigur Rós, Björk).
Al di là dell’indiscusso prestigio, i nomi dei produttori, e delle loro precedenti collaborazioni, in qualche modo rivelano anche qualcosa de percorso musicale di questo capolavoro.
Senza trascurare l’eredità chiaramente dichiarata dei Mumford and Sons, gli echi di questo disco, traccia dopo traccia, costituiscono in realtà un territorio musicale molto vasto, che raccoglie intorno a un’atmosfera decisamente epic, richiami di Kean (per esempio in Hidden Hand), di Of Monsters and Men (Alarms in the Heart), dei The National (It Was Love That Laid Us Low e Roman Candle), dei Counting Crows (Rollerskate).
Spicca più di ogni altra cosa il cuore fortemente “spirituale” di questo album: contribuisce senz’altro fortemente a questa spiritualità la voce e i testi di Peter Liddle, leader carismatico della band. A ciò si aggiunge l’”ispirazione” islandese: l’album infatti è stato registrato nel 2013 nell’antica isola europea, e come detto arrangiato da Valgeir Sigurðsson.
Già Shallow Bed conteneva echi di Icelandic: il produttore Peter Katis infatti veniva dal lavoro con Jonsi, oltre che con The National e Interpol.
Insomma è come se la band di Liddle, con Matthew Taylor alla chitarra e tastiere, Scott Miller al basso e Jon Warren alla batteria riesca a congiungere con il suo sound in un’unica immaginaria linea musicale tutti i brillanti puntini dell’alternative rock di questo terzo millennio, cominciando dall’oltre costa con The National e Interpol per arrivare all’Islanda di Sigur Ros e Of Monsters and Men, per approdare infine alla old traditional England (che è pur sempre la loro patria) il cui suono di brughiera è presente e forte in pezzi come Gethsemane (il primo singolo), Vessel, e le bellissime Hope Diamond e Everlasting Light, in cui si raggiunge il livello più alto dell’intensità rock di questo disco.
Il tutto è condito da una solida base pop-rock, che rende lo spiritual e l’alternative degli arrangiamenti mai sperimentale e fine a se stesso, ma sempre volto alla ricerca della melodia, dell’armonia, e dell’intensità emotiva ed epica. E’ come se si tentasse a ogni traccia una ricerca sempre più impegnativa e profonda, come rivelano i versi di Gethsemane. “Excavating down you’d find the drowning and the drowned / And then there’s us, babe”.
Ed è lì infatti che li troviamo, i quattro di Stratford, sempre in bilico fra l’affondare (Vessel) e il riemergere trionfanti (Everlasting Light, Med School, Hope Diamond) facendo esplodere il grande lirismo della loro musica: un’intensità, raggiunta già al secondo album, che fa promettere altri grandi capolavori sotto la firma di questa band, da non lasciarsi assolutamente scappare.
autore: Francesco Postiglione