Cominciamo ad abituarci, alle sorprendenti mosse di Dave Pajo. Quando lo intervistammo, all’inizio del 2007, era in piena botta new folk acustica, e ci disse: “chi mi conosce e mi sta intorno ha osservato la mia mutazione recente: lentamente mi sono alienato dal resto del Mondo, così da perdere la mia mente nel conforto di un’accogliente prigione interiore”. Beh, è chiaro che ora Pajo ne è uscito, perchè dopo una vita spesa attraverso i più vari generi del rock, dal noise al minimalismo, torna ad una sua antichissima passione: il metal. Assieme ai colleghi Michael McMahan e Todd Cook dà vita ad un gruppo che mesmerizza i suoni ed i ritmi duri della metà degli anni 80, epoca d’oro del trash e della nwobhm , ed ecco un album duro, profondo, orgogliosamente tradizionale, ma anche – e qui i metallari capiranno cosa intendo – una boccata d’ossigeno, nel mare di recenti stranezze e criptiche contaminazioni del genere duro. Non che non ci piacciano, o non meritino maggiore attenzione, i gruppi drone metal quali Sunn o)), ma il metal è prima di tutto ritmo e velocità! E a dirla tutta, il fenomeno è più generale, e la riscoperta del metal tradizionale, purificato da taluni eccessi pittoreschi del passato, è cosa sotto gli occhi di tutti, e non l’hanno avviata i Dead Child: ci sono i giovani Sword, Lair of the Minotaur ed il progetto Probot, che ugualmente sono partiti da una forte passione verso quelle atmosfere potenti, su temi mitologici, di ribellione; la rabbia non era stata ancora contaminata dalla depressione del grunge, nella metà degli 80, e l’entusiasmo era totale… Le due chitarre dei Dead Child portano avanti trame pesanti con sporadici ricami che non sono mai veri assoli, mentre il cantante Dahm, senza strafare, senza andare oltre i suoi limiti, si propone con una voce ed un atteggiamento, stile il mai dimenticato Paul DiAnno. Come sempre nell’heavy metal, sono però il bassista ed il batterista a fare il lavoro oscuro, su cui si regge tutto: una ritmica caricata di groove, nera, potente ma quasi sempre rallentata, ed ecco, i Dead Child sono qui. Un po’ come i Probot di Dave Grohl, anche i Dead child di Dave Pajo omaggiano i grandi del passato senza volerci mettere troppo del proprio, nella fattispecie omaggiano Iron Maiden, Voivod, Motorhead, con 11 pezzi verso i quali chissà quale sarà la reazione dei più giovani, cresciuti con l’isteria crossover di System of a Down e Korn. Disco onesto, di revival, ma non nostalgico.
Autore: Fausto Turi