Ciò che di buono si può dire senz’altro di questa esordiente band del salernitano è che per un attimo ti fa dimenticare dei vari Negramaro, Zero Assoluto e simili che spadroneggiano nelle radio portando avanti la gloriosa (sigh) bandiera della musica italiana. I 7th floor infatti cantano in inglese e la loro ispirazione non ha nulla a che vedere con quello che l’Italia ha prodotto negli ultimi trenta o forse anche cinquant’anni di musica nazionale, buon per loro. Il loro è un hard rock classico, anzi classicissimo, che ti riporta indietro di venticinque anni all’epoca in cui dominava l’heavy metal.
Naturalmente son pur sempre italiani, quindi si tratta di un heavy raddolcito, ma sostenuto tuttavia con buon ritmo dalle percussioni di Emanuele Amatruda, e dal basso di Alessandro Farina, mentre è la voce di Joe Crivelli a ricordare immediatamente Bruce Dickinson e compagni nell’ispirazione.
La chitarra elettrica la fa da padrona, e sicuramente Brian Cowan la tecnica ce l’ha. L’album d’esordio vede 6 canzoni tutte ritmate tranne la classica immancabile ballata lenta, con qualche momento sicuramente apprezzabile come Forgive Me, o Change My Life Again, ed è sicuramente un lavoro pulito, limpido, ineccepibile dal punto di vista fonico.
E veniamo ai difetti: i quattro ragazzi sanno suonare, ma non sembra abbiano molte idee. Tornano indietro di vent’anni ma non per innovare un genere, semplicemente per rimanerci attaccati.
Dimenticano poi quel tanto di computer e sintonizzatori che possono servire ad arricchire i suoni, e conoscono solo quattro strumenti, i loro: niente archi, niente tastiere, niente effetti. Un metal rigoroso, che può anche essere una scelta (e probabilmente lo è) ma è per lo meno una scelta anacronistica. E poi, insomma, la chitarra con l’effetto calabrone è ormai roba non vecchia, ammuffita: capisco il rinnegare le mode, ma manca ai ragazzi la genialità per rendersi veramente unici nel loro genere, e allora forse un po’ di innovazione non guasterebbe.
Ma sono italiani, come si diceva: e per la cultura musicale di cui siamo portatori è già tanto che siano riusciti a staccarsi dal contesto e tirare fuori un album così. Di gente che sa davvero suonare se ne ascolta poca, e questo è un’occasione che comunque vale la pena non sprecare.
Autore: Francesco Postiglione