Eugene Edwards continua il suo percorso alla ricerca delle radici più profonde e significative del suo Paese. Senza essere moralista, riesce a dare un tocco spirituale a queste nuove dodici canzoni intrise di misticismo a trecentosessanta gradi, blues e di un folk il più possibile variegato ma con le radici ben salde nella popolazione Usa.
Sullo sfondo dei brani ci sono sempre le dodici battute a mantenere la struttura, rievocando gli spiriti di Jeffrey Lee Pierce (per certi versi Edwards sembra il principale erede dell’ex leader dei Gun Club), Ian Curtis e John Fogerty, ma volendo si potrebbe andare ancora di più a ritroso, rievocando il lavoro antropologico che fece molti decenni fa Alan Lomax quando scoprì i cantanti di folk-blues.
Il tutto per dire che “The threshingfloor” è un disco che comprende l’essenza della musica americana. Se analizziamo nel dettaglio alcuni brani comprendiamo la grandezza di questo disco.
Partiamo con “Raise her hands” che ha un intro nel quale vengono evocati le ritmiche degli indigeni americani con la batteria che continua con quell’incedere osessivo, ma il brano subisce una mutazione facendosi quasi blues su cui si staglia un canto sofferto e catartico.
La titletrack, dal canto suo, è un voodoo percussivo che puzza di zolfo e di esorcismo; con le chitarre che vanno molto in profondità. “A holy measure” invece è un rock-blues con chiare reminiscenze africane, così come la conclusiva ballata “Denver city” ci riporta ad un brillante country-blues agognato e soffuso.
Altri spunti follie sono presenti in “Terre haute”, mentre in “Singing grass” Edwards ci presenta una ballata struggente e malinconica. “The threshingfloor” si candida ad essere una dei cinque dischi più belli del 2010.
Autore: Vittorio Lannutti