Gran bel personaggio Burnt Friedman, artista che nell’arco di un quindicennio si è incarnato in un’infinità di progetti partendo dall’elettronica e poi approdando al jazz-rock o alla musica dub nelle sue molteplici varianti, da quelle più minimal-ambientali (ricordo una sua valida performance solista tre anni e mezzo fa alla Sala Vanni di Firenze con solo laptop e lettore multidisc) a quelle più vicina alle radici reggae (vedi certi brani di “Cant’t cool”, il secondo disco con i Nu Dub Players). E oltre alle incarnazioni come Non Place Urban Field, Some More Crime, Drome, aggiungete pure la gestione della propria personale etichetta Non Place e le collaborazioni con il batterista dei Can Jaki Liebezeit, con David Sylvian e Steve Jansen (dovrebbe uscire a breve un loro album come Nine Horses) e sotto la sigla Flanger con Uwe Schmidt alias ATOM tm (e alias Atom Heart e ancora alias Señor Coconut).
Il quarto lavoro nella discografia dei Flanger – “Spirituals” – è una rivisitazione in chiave contemporanea del jazz anni Venti con interpretazioni di Riff Pike III alla voce e alla chitarra acustica, Laurence Pike alla batteria e Hayden Chisholm al sassofono e al clarinetto. Al fianco di loro tre si alternano nei vari brani altri cinque strumentisti mentre la cabina di “regia elettronica” è occupata da Burnt Friedman e Uwe Schmidt, anche autori o coautori di tutti i pezzi della raccolta. Il tocco elettronico resta comunque sempre molto discreto e funge più che altro da collante, da tessuto di sottofondo, mentre il pianoforte suonato da Uwe Schmidt appare qua e là non occupando mai veramente la scena. E allora ad illuminare il disco sono il calore delle parti vocali, il sassofono che borbotta divertito in “Crime in the pale moonlight”, gli assoli di chitarra alla Django Reinhardt di “Music is our secret code”, due pezzi quanto mai swinganti come “How long is the wrong way?” e “Peninsula”.
La successione “In my car (single version)” / “In my car (bolt mix)” e le due diverse versioni di “How long is the wrong way?” e di “Crime in the pale moonlight” situate in coda all’album (le versioni “originali” compaiono invece in apertura) conferiscono al lavoro la struttura di una jazz-session aperta e in continuo divenire anziché quella di un album studiato a tavolino e racchiuso in un minutaggio standard. Una gran bella prova che ha ottime possibilità di incuriosire ed appassionare anche gli ascoltatori di jazz “ortodosso”.
Autore: Guido Gambacorta