Dopo 20 anni senza notorietà o ti senti uno sfigato o la notorietà non ti interessa, e l’unica cosa che sta a cuore è la sentita necessità di spingere ancora più oltre le proprie già avanzate istanze creative, coinvolgere altre menti fertili, sperimentare nuove forme finanche di produzione di un disco onde farne saltare anche l’ultimo elemento di contatto con le logiche di mercato: il prezzo. I Tasaday appaiono nel momento in cui “barrate questa seconda casella”.
Ma “Kaspar Project” è qualcosa di molto più collettivo di qaunto finora possa sembrare. A partire dal meccanismo di produzione: chi prenota una copia la finanzia. Raggiunto il budget il disco si fa, a prezzo di costo, a chi lo ha prenotato (e se ho detto una cazzata Mirko Spino sarà pronto a correggermi via e-mail). Ed è anche su ww.tasaday.it se avete commeso il peccato (mi ci metto davanti) di non prenotarlo. 600 copie in tutto. Ma vuoi mettere avere il disco con annesso packaging handmade cartonato ruvido e cover art, vero e proprio pallino di casa Wallace?
Così come a suonare in “Kaspar” sono in tanti, tantissimi: A Short apnea, A034, Roberto Rizzo dei R.U.N.I., i “soliti” del giro Wallace e Bar la Muerte, compresi Bruno Dorella & Stefania Pedretti aka oVo e lo stesso Mirko Spino. E una pletora di altri “contributors”, piccoli grandi oblatori che hanno dato anche un frammento sonoro affinchè il disco fosse plasmato, così come lo possiamo ascoltare, dai Tasaday. O meglio assemblato, ma su questo tornerò più avanti.
Mentre scrivo cerco ancora di entrare appieno nella dimensione estetico-concettuale del lavoro. Non è facile. Un azzardo mentale mi suggerisce una logica di “ricomposizione dei contrasti”, tanto fra i suoni che tra questi e le immagini, la grafica. Da un lato abbiamo “L’Enigma di Kaspar Hauser” (film) di Herzog, lo sguardo folgorato dalla morte incombente dell’uomo in copertina, che poi nella inner sleeve giace, appunto, morto a terra, spalle all’assassino, senza volto, che si allontana (foto tratte dal film), e ancora il testo, in incomprensibile font “germanico”, dell’omonimo “lied”, il b/n con rare tracce di rosso nel colore. Un concept cripticamente nord/mittel-europeo d’altri tempi, greve ed, appunto, enigmatico, se non quasi lugubre.
Il sound. Difficile trovare se non delle “vaghe” direttrici: i brani, come anticipato, sono assemblaggi, non casuali, di parti che potrebbero trovare altra strutturazione/sequenza. Accertata quindi la logica cut-up e caleidoscopica/campionaria dell’opera (gli stessi titoli dei 13 brani sono parti di un unico composito discorso, così come tra gli stessi non v’è soluzione di continuità), un’individuazione più puntuale delle componenti sonore ci porta tanto a momenti (parecchi) di “stasi” timbrico-ambientale quanto a massimalistiche e succose parentesi in cui l’assetto strumentale rock va in free, e ancora frequenti intrusioni di parlato e rumori “estranei”, chitarra in slide, rari accenni di clarinetto, clangori industriali (la memoria non mi soccorre sul resto). Sound-processing ad libitum, come si conviene.
La ricomposizione (se mai c’è – l’interpretazione è squisitamente personale ed opinabile) è in quel che di inquietante, angoscioso, ossessivo, deformato, lontano e inspiegabile che un fantomatico regista folle sembra aver mirabilmente architettato, senza apparente logica alcuna, senza limiti espressivi, alla totale mercè di un ricettore/catalizzatore/riproduttore di fonti e informazioni quanto più disparate, con annessi disturbi di frequenza. Un viaggio psichico lucido e paranoico, alienante e affascinante, discreto e possessivo al contempo. Un ulteriore passo avanti nella lettura della realtà.
Autore: Roberto Villani