Giungerà mai il tempo per una next big thing dal Distretto di Columbia? Non è che ce ne freghi granchè, tutto sommato. Le next big thing vanno bene per i tabloid più bisognosi di hype ed etichette per rilanciare il chiacchiericcio su cui basano anche la loro diffusione. Mi piace però pensare alla genesi di un fenomeno del genere. Quando non c’è nulla che lasci intravedere un gran successo se non un onesto e buon disco, valutato non per quello che ne sarà del gruppo ma per ciò che effettivamente rappresenta al presente. Senza cercare a tutti i costi che “x” sia chiamato “y” in quanto meglio catalogabile, meglio vendibile, appunto, come “next big thing”.
Per i Beauty Pill (Washington, altrimenti perchè tutto ‘sto casino?) è il primo disco, ma alle spalle (ecco, noi guardiamo innanzitutto al passato) c’è dell’altro. Un paio di EP, innanzitutto, e svariate esperienze pregresse, prima fra tutte, per importanza assunta e per riferimento attuale (il mainman Chad Clark), gli Smart Went Crazy. Su cui non vi diciamo alcunchè in quanto materialmente a secco di nozioni dirette (basta con le micro-biografie prefabbricate…). Intriga invece vedere il marchio Dischord su questo “The Unsustainable Lifestyle”. Non è questione di fidarsi alla cieca, ma di lasciarsi guidare dalla curiosità circa ciò che bolle nella pentola della creatura discografica di Ian MacKaye e Jeff Nelson. E l’esito di questa ficcata di naso sorprende, vuoi per la varietà del materiale sonoro, vuoi per quella ormai ingiustificata aspettativa di ricevere almeno mezzo “pugno nello stomaco”.
Quanto alla varietà va fatta una premessa: se “The Unsustainable Lifestyle” sembra il prodotto di 3-4 band, lo si deve alla frammentata tempistica della sua realizzazione: almeno tre, infatti, i periodi di composizione dei brani, distanziati non meno di 6 mesi l’uno dall’altro. Forse un’indagine più accurata potrebbe far emergere il relativo periodo di ciascun brano, ma no, troppo faticoso. Resta però un’altra curiosità, circa il “dopo” (no, niente next big thing): come suoneranno?
Intanto adesso i Beauty Pill (moniker bello ironico, no?) non hanno il minimo timore di fare a meno di un marchio ben preciso. Il disco si apre con aeree lievitazioni post-lounge (voce a parte, l’iniziale ‘Goodnight for Real’ potrebbe essere pugno di Tim Gane – Stereolab, scusate), ma è un volo occasionale fuori dai terreni di un indie-pop poco voglioso di particolari azzardi ma brillante, se non altro per la politica delle “pari opportunità vocali”, con l’alternanza di Chad e Rachel Burke al microfono. A quest’ultima toccano gli episodi più sussurrati e arpeggiati (‘Lifeguard in Wintertime’, ‘Prison Song’, ‘The Western Prayer’, ‘Quote Devout Unquote’), in cui la vena di maliziosità pop si stringe per fare un po’ di posto agli afflati folk, chessò, di una Shannon Wright (sì, tra un po’ vi recensisco anche il suo ultimo disco) o di una Lisa Germano.
Varietà, dicevamo. Gli episodi più calmi, il più delle volte, conservano comunque il contributo “muscoloso” (c-b-b) del rock, ma per spassarci davvero ci vuole un brano come ‘Won’t You Be Mine’ (bel giocattolo retro alla Soul Coughing), o il contrasto indotto dalla continuità tra questo e l’iniziale sfuriata elettrica di ‘Such Large Portions’. Ed è negli ultimi brani, quelli su cui nessuno punterebbe per il successo del proprio album, che vanno cercati gli episodi forse più felici dell’album, come la serenità un po’ macchiata di ombre e nuvole di ‘Drive Down the Coast’ o, in chiusura, il super-groove-pop tutto voci e sezione ritmica ‘Terrible Things’. Beauty Pill fa effetto, anche di fronte a uno specchio non è cambiato nulla nei vostri lineamenti…
Autore: Bob Villani