Ancora una vota, la copertina di un disco contribuisce parecchio ad intuire la musica che esso contiene. Questa band americana di Portland, Oregon, al suo quarto disco in 5 anni, suona un intenso e lisergico krautrock strumentale di base acustica, tra una chiara adesione al c.d. folk apocalittico tanto sugli scudi dei Current 93 ed un’indole nascosta direi persino doom, che a tratti fa di ‘Burning off Impurities’ qualcosa di simile ad versione acustica degli Sleep o persino dei Neurosis. Le lente marce strumentali dei Grails si muovono insomma tra l’indolenza tribale, onirica, narcotica e bucolica degli Amon Düül di ‘Paradieswartz’ e dei Ghost di ‘In Stormy Nights’, ed un sempre represso desiderio di sfogare l’energia in un’eruzione sonora elettrica – penso ai Motorpsycho di ‘Lobotomizer’, o agli Isis di ‘Oceanic’ – ma malgrado molte tracce siano costruite sul pachidermico inesorabile crescendo – ad es. la superba ‘Silk Rd’, durata 8’14” – i Grails non lasciano mai andare il pedale dell’acceleratore. Il quartetto – chitarra, basso, batteria, organo – sorprende principalmente per la sua modernità, e su questo vale la pena di esser chiari, poichè ‘Burning off Impurities’ sorpassa in scioltezza la psichedelia pinkfloydiana derivativa di bravi ma poco originali contemporanei quali Porcupine Tree o Radar Bros., ed attraverso strutture compositive libere e talvolta jazz-rock sullo stile dei Gong – valga in proposito ‘Origin-Ing’, durata 7’51” – si inoltrano lungo sentieri una volta tanto imprevedibili, che già è cosa rara, nella musica rock contemporanea.
Va chiarito tuttavia che l’ascolto dei 50 minuti di questo CD potrebbe lasciare delusi coloro i quali non amino, in musica, la lentezza dei ritmi ed il lavoro per sottrazione sui suoni, poichè proprio sulla scia di certo krautrock spaziale anni 70, e penso stavolta ai Tangerine Dream di ‘Alpha Centauri’, i pezzi dei Grails sembrano sempre frutto d’improvvisazione, ed ecco che l’imprevedibilità di cui dicevo prima susciterà in costoro una sensazione di attesa continua che infine si risolve nel nulla, proprio perchè non esiste, per i Grails, la banale soluzione al pezzo che può essere la sfuriata rock finale. Il disco si conclude con il pezzo omonimo del disco, 7’49” da capogiro, in cui ancora una volta emergono scorie folk in abbondanza, e l’armonica a bocca richiama alla realtà: alla nostra realtà, quella che per tre quarti d’ora abbiamo abbandonato, ascoltando la musica dei Grails.
Autore: Fausto Turi