Dov’eravate il giorno in cui hanno dato i nomi alle cose? Andrew Bird da Chicago era lì in prima fila, attentissimo, a prendere appunti. Il risultato? Beh, alzi la mano chi è capace di scrivere un’intera canzone fatta di rime (ben otto), allitterazioni e assonanze che ruotano intorno alla parola “formaldehyde” – e converrete che non è proprio cuore-sole-amore…
Ma un vocabolario caustico e ricercato è solo uno degli ingredienti con cui questo songwriter, violinista stralunato e “fischiatore professionista” (così dice la sua bio: una specie di Branduardi in acido, insomma…), farcisce la seconda prova solista tre anni dopo Weather Systems, che ne aveva rivelato l’insolita vena alt.country – ennesimo temporaneo approdo dopo le più svariate frequentazioni musicali alla guida dei Bowl of Fire o al servizio di artisti come Ani DiFranco, Will Oldham (aka Bonnie ‘Prince’ Billy), Lambchop.
Per le quattordici tracce di questa “misteriosa produzione di uova”, Bird mette via il violino con cui compone gran parte della sua musica e si diverte a cantare e a suonare tutto ciò che gli capita a tiro. Ed ecco un pedale sampler e l’immancabile “whistle” affiancare chitarre essenziali che improvvisamente sbocciano in ruvidezze alla Wilco e glockenspiel che fanno il verso a un’orchestrina anni ’40, come in Opposite Day, cronaca di un risveglio privo di metamorfosi sconvolgenti ma non meno kafkiano nella sua implacabile “qualunquità”; o nell’esotica Skin is, my, che utilizza ritmi latin senza gli ammiccamenti di certa musica ispano-ruffian-americana. Con Kevin Donnell alla batteria e le bellissime intromissioni vocali di Nora O’Connor, il menestrello torna poi al suo strumento prediletto per ricamare arrangiamenti orchestrali tanto deliziosi quanto discreti o improvvise, trascinanti esplosioni sonore che si spengono in un du-dum du-dum accattivante, su cui l’ascoltatore italiano si asterrà dall’intonare il celebre “cuore matto” di littletoniana memoria (Fake palindromes).
E poi, come già accennato, le parole. Un’attenzione alla musicalità del testo che viene prima ancora della sua “musicabilità” e una stupefacente attitudine a rendere orecchiabile ogni strofa al primo ascolto costituiscono il valore aggiunto di un songwriting di per sé ironico e mai banale, spesso persino impietoso in certe inoppugnabili osservazioni (“You’re what happens when two substances collide/ and by all accounts you really should’ve died…”). Il tutto commentato dai bei disegni di Jay Ryan – uno per ogni canzone – che ci catapultano nella favola nera che scriverebbero oggi i fratelli Grimm. Una favola tremendamente reale, dove è facile incontrare orde di Don Chisciotte invasati a bordo dei loro B-17 (l’America di Bush e dei suoi nemici immaginari?); una favola di plastica e istituzioni finanziarie, di bilanci di una vita distesi sul tappetino del bagno. Eppure – sembra consolarci Bird – un lieto fine è possibile, finché continueremo a innamorarci del disordine delle persone e qualcuno sarà lì ad ascoltarci, senza fingere di essere troppo occupato o di non esser solo.
Il rischio c’è, ed è quello di perdersi nel proprio eclettismo, nelle infinite e certo involontarie citazioni, in riferimenti imprescindibili e non – da Brian Wilson al Beck più intimista (Measuring cups), dai Beatles (A nervous tic motion of the head to the left, Banking on a myth) ai caroselli agrodolci di Sondre Lerche. Ma è un rischio che Andrew Bird corre fino in fondo, gettando il cuore oltre l’ostacolo e regalandoci il suo personalissimo Sgt.Pepper’s, che forse non entrerà mai nella storia ma difficilmente uscirà dal vostro stereo.
Autore: Rino Cammino