Il business delle major (e relative sussidiarie, che svolgono per i futuri frequentatori delle charts ciò che una squadra di bassa classifica fa per le future promesse del pallone) non si ferma mai, questo è noto. Una nuova testa di ponte delle major si affaccia in Italia, la Sk-Eye, che, formalmente, stipula contratti di licenza nazionali per artisti accasati, all’estero, presso qualche moghul discografico.
Nella fattispecie, sua maestà Capitol Records. Ok, un po’ di ironia che non vuole essere una critica aprioristica e “bacchettonamente” indie delle pratiche di marketing discografico. Se un gruppo vale, perché non promuoverlo? In bocca al lupo allora. Ma prima bisogna ascoltarlo, e ricordare che ciò che le major cercano spesso di imporre è, più che un nuovo, papabile mainstream sound, una sorta di “rimpasto” di ciò che ha avuto buon riscontro alla cassa nelle stagioni da poco trascorse, magari anche in ambito non strettamente “principale”. Offerto come “secondo giro”, ma senza dichiararlo.
Sotto osservazione ora è questo quartetto “pan-anglosassone”, che rappresenta, ognuno nella misura di un componente, dal Canada all’Irlanda, dall’Inghilterra alla Nuova Zelanda. Tutti di stanza a Londra, tutti ritrovatisi su annunci, qualcuno strappato a un volo verso la terra madre proprio da questa opportunità. E’ anche il fato quindi a regalarci gli 11 brani di “Satellites”. 50 minuti in cui i Vega 4 giocano, in buona sostanza, a muoversi sulla passerella lasciata vuota dai Radiohead dai tempi di “The Bends” e già presa d’assedio, in questi 8 anni, da famelici epigoni pronti a lanciarsi su ogni singolo capello lasciato da Yorke e compagni.
Uno sciacallaggio che, visto il lasso di tempo intercorso, pare giustificabile solo in ambito “demo”, dove l’assenza di promozione e contratti lascia libere anche le cover band di esprimersi. Oppure, vista la premessa/logica di cui sopra, in ambito major. Logica alla quale non sembra il caso, nella nostra posizione, di associarsi (ci pensano già altri – molti – a farlo).
Riepilogando: voce “campionata” del genio di Oxford, chitarre brit ad alto volume come in “quel” disco lì, un po’ di Coldplay e Suede per confondere un po’ le acque e non correre il rischio di querele. Manca ‘Street Spirit’ e qualche altro episodio intimo di “quel” gruppo lì. Potevano fare meglio, sia come imitatori che come “originals”…
Autore: Bob Villani