Per i Misantropus il tempo sembra essersi fermato ai primi anni settanta, e non solo nell’approccio sonoro e nella musica che suonano, ma anche nella scelta estetica di packaging e dell loro immagine che, vista la modalità operativa di rigorosa autoproduzione ‘in vinile’, diventa anche etica.
Merita quindi grandissimo rispetto chi si pone fieramente al di fuori di stili e trends da cavalcare e si incammina in un percorso sicuramente difficile poiché non ammiccante neanche a chi ascolta stoner, genere che in qualche modo avrebbero potuto abbracciare. Non utilizzando riffs ruffiani né suoni alla moda che potrebbero facilmente gettare fumo nelle orecchie di chi è sempre alla ricerca di sensazioni hard, i Misantropus suonano il doom come lo intendevano i primissimi Black Sabbath o i Candlemass, i Trouble e i Saint Vitus.
Lenti e cadenzati quindi, solo strumentali nel primo album, sviluppano i loro temi ossianici con la passione del filologo, e la via di fuga che prendono (nel secondo disco) dal loro mondo nero e viola li conduce verso ambienti più onirici e dilatati, più space, grazie anche ai cori di Francesca Luce della vecchia formazione dark romana Marbre Noir. E del resto, se un vecchio master della scena heavy-psych come Paul Chain, osannato da gente come Lee Dorrian dei Cathedral, è di Pesaro, perché non potrebbero essere questi freaks di Latina a portare alto il vessillo del proto-doom sabbathiano?
Autore: A.Giulio Magliulo