Neanche il tempo di assaggiare, della Memphis Industries, un gustoso sampler, che dell’etichetta inglese si perdono le tracce. Asfissia da promo? No, semplici disfunzioni distributive. E dicevo, “Estuary English”, quel sampler, aveva presentato artisti capaci di liberarsi dallo stereotipo del brit-pop e delle sfocate celebrazioni beatlesiane per offrire un’immagine – relativamente – rinnovata del sound inglese (eh, con ‘sti scozzesi decisi a conquistare il mondo, meglio tornare all’antica distinzione, in cui peraltro un tempo finivano ricompresi tutti i sudditi della regina…). La novità sta nel farsi in qualche modo habituè delle “macchine” con un modesto ricorso a certa electro-indie, strumentale a che venga messa in maggiore e più “moderno” risalto quella new-wave a cui il sound di molte di quelle band guardava.
Andy Dragazis e i suoi Blue States (oggi un terzetto, ma agli inizi c’era il solo Andy a scodellare piccoli successi downtempo/chill-out) sono quasi la quintessenza del discorso che si va imbastendo. L’enfasi cade su un’interazione spinta tra chitarre e computer, lasciando quasi un velo d’ambiguità su quale sia (elettronica? rock?) l’estrazione stilistica della band. Immaginate due canali che confluiscono, peso quasi equivalente: i Blue States sembrano lavorare con l’obiettivo che di questa convergenza possa vedersi esclusivamente il dopo.
E questo “dopo” inizia (‘Across the Wire’) con un pesante debito agli Smiths, che lascia appunto perplessi su quanto effettivamente “nuovo” sia, in fondo, questa che solo con valenza positiva si vuol definire come “tendenza”. Poi però le nebbie si diradano, ed emerge in tutta la sua inequivocabilità la ricerca di un “dream-pop-15-anni-dopo” che faccia incetta di teatri o altri spazi bui e a sedere (avete visto anche voi i Tex La Homa all’Escenario Nasti in quel del Primavera Sound? Visto come ha funzionato, e non c’era uno che fosse uno, in piedi, alla maniera di una rock gig) come proprio palcoscenico “eletto”.
E poi la psichedelia, componente già implicita nella dizione dream-pop ma che viene ancor più prepotentemente richiamata da un brano come ‘Output’, con cui i Blue States sembrano quasi voler intra/riprendere, oltremanica, le felici intuizioni di quei geniacci teutonici di “area” Morr/Hausmusik e affini. Un sentiero la cui porzione da percorrere è ancora lunga (vista anche la marginalità a cui certa musica è destinata in Gran Bretagna, dove l’elettronica parla altre, più danzerecce lingue, né mai ci potrà essere la “benedizione estetica” di un Kraftwerk), ma di cui i Blue States sembrano, comunque, possedere una discreta bussola…
Autore: Bob Villani