Un passato futuribile e un presente saldo nel passato. È questo il marchio di fabbrica dell’ultimo lavoro discografico di Nick Cave and the Bad Seeds, “Ghosteen”.
Una matrice che ha in sé tante positività quanto negatività nella codificazione del suo linguaggio musicale. Se da un lato Cave, con il suoi otto lustri di attività legata a una produzione artistica di altissimo livello, con picchi eccelsi (su tutti “Tender Prey” e “The Good Son” … – entrambi con i the Bad Seeds), ha con esperienza e maestria addomesticato ancora una volta la musica e la poetica delle liriche all’arte della precipua utilità, dall’altro la sua notorietà, quasi idolatrica, rischia di far tracimare la giusta pesatura in iperdulia da apparizione mariana.
Con ciò non si assume (esclusivamente) che “Ghosteen” sia un lavoro da molti (forse anche giustamente) “sopravvalutato”, ma l’eco che ha riscosso nell’ascoltatore “alternativo medio” e in parte degli addetti ai lavori, ripropone l’interrogativo se un simile disco avesse avuto altrettanti riscontri positivi e notorietà con apposta in calce una differente firma.
Ed è proprio questa la sua “negatività”. In un momento storico/musicale in cui si vive un sovvertimento di valori tra l’ipertrofia delle produzioni liquide underground e la progressiva estinzione dei vecchi “celebrati” dinosauri, il peso di un artista come Cave schiaccia e scaccia con massiccia evidenza ciò che di buono, se non ottimo, si muove nelle pieghe nascoste alla notorietà.
Fatta questa premessa, per lo scrivente doverosa, tornando al tema centrale della nostra trattazione, inumate le abrasioni, con “Ghosteen” Cave si fa lui l’angelo/uomo sopra Berlino e risorge in una spiritualità che si fonde alle pene e al vissuto terreno, umano, nelle interazioni e nei rapporti che, spogliati delle psicosi, vestono il sudario dell’altrettanto dolorosa quotidianità, schiodata però dalla croce e dalle sofferenze del calvario e filtrata dalla “grazia” cristiana della promessa di resurrezione che finisce con l’addolcire il tutto di un’evitabile edulcorata “passione”.
Il disco si apre con un magmatico movimento che fluido scorre e si sovrappone in strati di sintetizzatori retrò (Cave e Warren Ellis testimoniano la loro vicinanza alla Kosmische Musik) per unirsi poi, in ierogamia, ad afflati di orchestrazioni e dal (costante) canto del pianoforte che diviene voce al narrato dei testi che come flusso raccontano, declinano, figurano, in un recitato che solo a tratti si apre a refrains da boia/”pop” dell’ascolto emotivo: su tutti il Telemaco rovesciato nell’attesa del padre per il figlio di “Waiting for you …” e la giaculatoria “Peace will come, a peace will come, a peace will come in time … a time will come, a time will come, a time will come for us”.
E così, se un Ellis ieratico, con le sue macchine, eclissa i restanti the Bad Seeds, al contempo le sue tessiture consentono a Cave di congedare un disco che, al netto di ogni considerazione “critica”, appare comunque identitario nella forma e sostanza e sicuramente funzionale per far breccia nel cuore del grande pubblico “alternativo”.
Re Inchiostro e i Semi cattivi saranno, la prossima primavera, di scena in Italia per due concerti dopo due anni di assenza: 9 giugno al Mediolanum Forum a Milano e l’11 giugno alla Cavea, Auditorium Parco della Musica a Roma.
https://www.nickcave.com/
https://www.facebook.com/nickcaveandthebadseeds
https://www.youtube.com/c/nickcave
autore: Marco Sica