In tempi in cui il “ritorno” del rock’n’roll è faccenda da riviste patinate, ascoltare un nuovo album dei Bassholes è senz’altro un’iniezione salutare. Anche perché dieci anni fa, quando la bassa fedeltà rappresentava un’attitudine prima ancora che una modalità espressiva, i Bassholes già c’erano. E facevano parte di quel manipolo di band che puntava a rivitalizzare il suono delle radici in maniera assolutamente non ortodossa e poco convenzionale. A dieci anni di distanza il duo di Columbus, Ohio, è ancora in pista e dà alle stampe un disco superbo. Dei Bassholes, in realtà, era un po’ che avevamo perso le tracce. Esattamente dal 1988 quando uscirono “Long Way Blues” su Matador e “When My Blue Moon Turns Red Again” via In The Red. Da allora la sopravvivenza della band era stata messa a repentaglio dalla lontananza, dal momento che il cantante/chitarrista Don Howland si era trasferito nel North Carolina e il batterista Lamont “Bim” Thomas in quel di Cleveland. Ma dopo un po’ di tempo di assenza i Bassholes non sono riusciti a resistere al richiamo del sacro fuoco del rock’n’roll e sono tornati per regalarci una delle loro prove migliori. Quest’eponimo album è il disco più notturno e meditato della loro discografia. E proprio questo mood notturno attraversa tutti i quattordici brani che ne compongono il percorso sonoro, a partire da un’intrigante “Broke Down Engine” di Blind Willie McTell. Nel canovaccio del disco si incrociano intuizioni e fonti d’ispirazione diverse, ma sempre profondamente legate al country, al blues, al bluegrass e al rock’n’roll. Con picchi creativi vicini alla perfezione: dall’ispirata “Daughter” (arricchita da un prezioso arrangiamento di banjo) all’accelerazione r’n’r di “Purple Moon”, passando per il country stravolto di “St. Matthew” e soprattutto per la straordinaria “Caravan Man”, un’ipnotica cavalcata di blues lisergico. Bentornati.
Autore: Roberto Calabro’