La prima cosa che colpisce di questo quartetto di Austin, Texas, apparte il formidabile e potente assalto sonoro messo in campo, è il loro orgoglio: il loro voler rappresentare a tutti i costi un qualcosa che conoscono bene, di cui si sentono parte ed al quale intendono anche restituire la dignità che merita.
Perchè dopo la deriva stoner degli anni passati, cominciata bene ma finita con troppi gruppi mediocri buttati lì nella mischia persino dalle major ed incapaci poi di mantenere le promesse, non c’è dubbio che un certo tipo di rock pesante è entrato in difficoltà sia creativa sia di vendite, ed il rischio ora è che questa musica ritorni nuovamente sottoterra come un tempo, come prima di Kyuss, Fu Manchu e Sleep, con produzioni nuovamente al risparmio, semplice revival sabbathista, dischi stampati in 200 copie, e poca attenzione da parte di un pubblico distratto e di addetti ai lavori stanchi.
Gli Sword suonano un doom metal dall’impatto spaventoso col quale, come dicevo, reclamano orgogliosa appartenenza al genere e parentela stretta con i grandi nomi del passato: soprattutto St.Vitus, Slayer, e poi i grandi degli anni 70: Blue Cheer, Iron Butterfly, Grand Funk Railroad, ma anche recenti come Melvins, Slo Burn o gli Sleep di ‘Dragonaut’.
Alla carica potente e lenta tipica del doom, gli Sword abbinano tuttavia una predisposizione naturale alle composizioni articolate – niente tre accordi e via, insomma – valorizzando il gusto per la composizione strutturata, anche qui con fierezza, alla faccia di chi sorride solo a sentir parlare del progressive: e dunque ‘March of the Lor’ reca il sottotitolo “instrumental in eight movements” come fosse una suite di EL&P, ma di calzamaglie e tastiere neanche l’ombra: il pezzo è un magistrale mantra slayeriano ricco di incisi, variazioni e cambi di registro, dalle tonalità bassissime e slabbrate, uno dei momenti migliori del disco insieme alla pazzesca ‘Barrel’s Blade’ che ricorda i più feroci Unida di John Garcìa ed alla cavalcata trash ‘Iron Swan’.
Le canzoni sono abbastanza lunghe, dai 4 e ½ fino agli otto minuti di ‘Lament for the Aurochs’ (vera e propria miniera di riff blues occulti sullo stile di Toni Iommi), e riesumano tematiche gotiche, romantiche, mitologiche tra cui spiccano i miti di civiltà perdute, di patetici alchimisti e maghi e soprattutto l’etica del guerriero (da qui il nome del gruppo, “The Sword” nonchè la bella copertina disegnata dall’amico Conrad Keely degli …And you Will Know us by the Trail of Dead); si tengono piuttosto alla larga, a sorpresa, dai risvolti diabolici tanto cari al doom.
Il drumming di Trivett Wingo è potente e marziale (‘Celestial Crown’), e contribuisce a dare un timbro rock’n’roll alle composizioni lavorando parecchio sui piatti; il cantante/chitarrista JD Cronise ha una voce che ricorda quella di Mark Farner dei Grand Funk Railroad, ed intesse trame, inseguimenti e duelli chitarristici forsennati con il talentuoso Kyle Shutt (chitarra) e Bryan Ritchie (basso).
Disco strepitoso, nel suo genere. E tra i migliori usciti in questo merdoso inizio di 2006. Tra Aprile e Maggio il gruppo attraverserà l’Europa in tournèe, ma non ci sono, per ora, date italiane in programma.
Autore: Fausto Turi