Deerhoof e Tigerbeat6: la San Francisco che ti aspetti, oggi, 2005. Charles Atlas: stesso tempo, la San Francisco che non ti aspetti. Dimentichiamo la weirdness e il geniale twist, a volte oscuro e inquietante ma dietro cui sembra sempre celarsi un beffardo sorriso, che sempre più musicisti di questa città, ognuno con una distinta individualità stilistica, riescono ad esprimere. Nella fattispecie di Charles Atlas (anzi, “dei” – si tratta di un trio, pur con un moniker così “anagrafico”, corrisondente peraltro a quello di un body-builder piuttosto noto nel relativo ambito), la storia è decisamente diversa.
La malinconica desolazione di “To the Dust” potrebbe far gridare “fuoco” se spostassimo il nostro ideale cursore geografico-musicale in quel di San Diego, almeno se pensiamo alle tonalità scure di Black Heart Procession e dei “figliastri” Castanets (di cui spero possiate leggere presto su queste pagine), e invece no, l’onestà ci obbliga a dichiarare ancora “acqua”. Occorre imprimere una buona rotazione al mappamondo per scovare qualche indizio altrove, ma alla fine ci siamo: Bristol. E se volte anche un nome, eccovi pure quello: Movietone (qualcuno potrebbe invocare da parte nostra il dovere di parlare degli artisti in modo da conferirgli, sempre e comunque, una personalità artistica separata da tutto il resto, e non ci sarebbe neanche da dargli torto, ma da che mondo è mondo, e soprattutto in ambiti “specialistici” – come auspico Freak Out possa essere definito –, lo “schema del parallelo” ha, in virtù della sua intrinseca comodità espositiva, più di un sostenitore).
Che questa assonanza stilistica trovi la sua ragion d’essere in un’influnza esercitata dal combo inglese (più longevo) su Wyatt, Greenberg e Galvagna, è roba da imbastirci una scommessa molto rischiosa. Potremmo lavarci le mani e parlare di comunanza d’ispirazione tra le due band, altrimenti. Ciò che conta è che i Charles Atlas – con chitarra e cello in primo piano – amano chiamare in causa il lato introspettivo e – “umoralmente” parlando – poco battuto dal sole della possibile espressività musicale, prediligendo, per la concretizzazione di questa, tempi decisamente lunghi. Eccoci quindi alle prese con lunghe e cogitabonde meditazioni, equidistanti dalla forma canzone e dalla suite multiforme, droneggianti e moderatamente inclini alla reiterazione di un qualche refrain – comunque vago e smussato –, oscurate da un cielo plumbeo che trasfigura la Bay Area in un litorale spoglio e abbandonato da porto al limite del sovraffollamento quale è – toccando la sua maggiore “nuvolosità” in un brano come ‘Signal Flags’. Senza pretesa di poterlo fischiettare un giorno a propria stessa insaputa, ma meritevole di ascolto.
Autore: Bob Villani