“Guardo ancora dentro di me come un ragazzo a un vecchio pozzo pur sapendo che quel fondo putrido era la coltre di un integro ghiacciaio”, “quel che sono mi mortifica, […] scambio aneliti con debiti”: questo è il biglietto da visita, non a caso tirato fuori nella canzone che dà inizio al disco, Stipiti, di Alessandro Rocca nel suo album d’esordio, Transiti, pubblicato da Dimora Records. Cantautore-poeta italianissimo, che ha attraversato nella sua vita da Taranto a Varese l’intera penisola, Alessandro Rocca esordisce all’insegna dell’espressionismo testuale, con una potenza lirica evocativa e immaginifica, e un sorprendente possesso della parola musicale, tanto che lo si potrebbe accostare facilmente ai classici del cantautorato italiano (De André, Guccini, Fossati) se non vivesse in lui una vigorosa post-modernità che trova espressione nella scelta della chitarra acustica accompagnata da arrangiamenti di natura orchestrale piegati però alle esigenze del rock-pop.
Luca Gambacorta alle chitarre e al pianoforte (ma anche primo arrangiatore dei pezzi), Cecilia Santo al violoncello, Marco Di Francesco al contrabbasso, Paolo Grassi al clarinetto compongono un’orchestra perfetta, che qui però fa solo da sfondo a una predominante, quasi ossessiva chitarra acustica, declinata in tutte le forme di arpeggio durante i dieci micidiali testi delle canzoni. Dall’intro cantautorale classico di Stipiti o di Mare, al floydiano arpeggio ultramelodico di Nessuno, fino all’intro quasi Radiohead di Pesci o Sventrati, la chitarra acustica di Rocca è il vero alter-ego delle liriche dell’autore, tanto che l’album può definirsi un duetto ripetuto in dieci varianti tra voce narrante e chitarra. Già, voce narrante, perché anche la voce come strumento viene qui declinata e piegata all’esigenza della narrazione, o meglio dell’evocazione poetica: tutto infatti ruota intorno e punta ad esaltare la potenza testuale, per la quale Rocca merita di essere definito davvero poeta ancor prima che autore di testi, per la sua capacità di trovare aggettivi, immagini, rime, accostamenti. Basterebbe la prima metafora che abbiamo citato all’inizio per fare da esempio, ma l’album è talmente ricco di queste soluzioni verbali che è impossibile non rimanere conquistati da frasi come “questa città sembra un derviscio azzoppato nello spirito, questa città è la nutrice di un malessere congenito”.
Ma gli esempi potrebbero continuare, lunghi quanto l’intero libretto di testi della confezione dell’album. La cosa davvero importante è che questo espressionismo testuale (mirabilmente ripreso dalla copertina fauves di Andrea Tomassini) traduce in lirica una autentica sofferenza esistenziale, proprio come da poeta maudit. Questa sofferenza è espressa con linguaggio nuovo e potente in tutte le sue declinazioni: l’ossessione invana per la fama postera in Nessuno, l’ urgenza autobiografica e l’ineluttabilità della serenità infantile (chiamata “solo stato di grazia a cui l’uomo può ambire”) in Mare, l’alienazione sociale e lavorativa in Licaone e Topi (splendida qui l’immagine a specchio del camionista e del bambino, ognuno dei due inutilmente anelante la prospettiva dell’altro), il frustrato desiderio di fuga dai confini in Transiti.
Il malessere nero, cupo, palpabile del disco si muove nell’arco di un’intera storia di vita dalla perdita della grazia infantile (“ricordo che trent’anni fa la percezione del mio spazio dava adito a desiderarmi adulto oltre i confini stabiliti dall’età”) e il confinamento in barriere sociali e geografiche (“l’adattamento al luogo di nascita non combacerà con l’ambizione di evolvere, l’orgoglio che precede la caducità non soddisferà l’esigenza di esistere”) nelle quali anche il sogno di diventare noto o famoso o immortale è un’illusione destinata a schiacciare l’individuo con il suo peso (Nessuno) fino alla perdità di identità fissa (Fossili) e alla morte vista nel suo più intenso vuoto nichilista (Mosche).
“Siamo clessidre senza sabbia dentro, siamo sventrati”: rare volte si è visto in Italia un concept album così denso e accerchiante, e per la potenza del dolore espresso in tutte le sue forme viene da accostarlo al The Wall floydiano (e come si fa a non pensarci guardando anche la copertina), se non fosse che siamo timorosi di tirar fuori tali pesantissimi confronti per un autore all’esordio a cui non mancano margini di miglioramento ancora. L’album infatti dal punto di vista musicale e della post-produzione non è perfetto, la voce è mono-tona e senza estensioni fra bassi e acuti, e a volte anche le liriche eccedono nel manierismo dell’immagine cercata a forza (come capita in Mosche o Licaone). Ma i difetti, che per fortuna possiamo elencare in un album così devastantemente sorprendente, lasciano il passo di fronte a quanto Rocca ha da stupire e raccontare.
Si comprende che il disco abbia avuto ben dieci anni di gestazione, a cui fa da contraltare il quasi unanime giudizio critico della stampa musicale italiana.
Rocca ha scritto e concepito un disco che non ti cattura soltanto, in realtà ti intrappola in un buio che sembra senza uscita, in una disperazione che potrebbe diventare difficile da sopportare fino all’ultima lirica, se non fosse che proprio in quelle ultime frasi di Transiti al termine di ben 8.35 minuti c’è la svolta, la reazione, lo spiraglio di luce, lo strappo, lo scatto istintivo della ribellione alla depressione: “Io voglio vivere, non l’ho scelto sì ma io voglio vivere”. E allora vivi ancora Alessandro Rocca, e continua a fare del malessere tuo e di noi tutti la poesia che hai dimostrato così bene di saper tradurre in musica.
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autore: Francesco Postiglione