Difficile aver sentito parlare dei tandy prima d’ora. Tre album auto-pubblicati non sono proprio reperibili al negozio due isolati più su. Non devono però essere neanche roba da buttare se la Gammon – toh, un’etichetta – li va a recuperare con questa retrospettiva (1997-2002, appunto) prima di presentare al pubblico, di punto in bianco, materiale nuovo. Roba niente male, praticamente già pronta – devono aver pensato. Perché non utilizzarla (perché non approfittarne – versione “lucrofila”)?
Non ho un’opinione uniforme su questo tipo di uscite. Davvero conoscevate già i Tandy? Il problema semmai è quando sono artisti già noti a fare altrettanto, o ancor peggio vengono colti da “sindrome sovraespositiva”, ossia quando, raschiando il fondo dei propri nastri, recuperano – e pubblicano, senza problemi – materiale “di seconda premitura”: outtakes, alternate versions, brani che hanno perso il ballottaggio con altri per accedere alla tracklist di qualche album. Oddio, se proprio vogliamo giustificare anche quest’opzione, si può sostenere che l’artista non sempre ci azzecca nelle sue scelte (vedere “Acme Plus” di Jon Spencer, decisamente più frizzante del suo “regolare” e precedente alter-ego), escludendo – almeno in un primo momento – materiale dalla opinabile minor qualità (ma – e valga lo stesso esempio – sono anche fattori commerciali a indurre l’artista in tali “errori”). Ad ogni modo, è un discorso legato inevitabilmente alla qualità. Roba buona, ok, specie se non si era riusciti a sentirla. Altrimenti meglio lasciar perdere. Meglio per tutti.
Veniamo al disco. Come accade spesso ultimamente, ci troviamo nuovamente tra gli Appalachi e il Midwest. Centinaia di atisti, da Nashville a raggiera verso ogni dove, non possono non aver creato nulla. Country. Gli anni passano, le generazioni si rinnovano. Qualcuno “indossa i panni vecchi” ma per assecondare in maniera più idonea il proprio umore, evidentemente poco attinente a fattorie, colline, viandanti.
Qualcun altro fa altrettanto ma, strumenti alla mano, niente sembra essere cambiato. Può trattarsi di una fedele rappresentazione delle roots, mito americano riproposto in provetta, patinato e oleografico omaggio a un passato, ahimè, distorto. La registrazione è pulita. Accordi, cantato, funziona tutto senza sbavature. Ma a che serve? A far finta di scoprire il vecchio west, sorseggiando whisky al caldo di un camino in un attico di Manhattan? Se son radici germoglieranno, ma in alcuni casi si può finire come sfondo sonoro per Marlboro Country.
Autore: Bob Villani