Eccolo finalmente, il disco italiano più atteso degli ultimi 5 anni.
Dura 72 minuti (dico: 72 minuti!) e contiene 13 canzoni che cambiano la traiettoria, ripresentandoci come sempre un cantautore coraggioso che rischia, evitando di ripetere pedissequamente le ‘Canzoni a Manovella’ che nel 2001 gli dettero il sacrosanto successo di pubblico dopo 10 anni di misconosciuti capolavori da balera. Ma ora che qua e là spuntano suoi emuli di dubbio valore lui fa la svolta, e s’inoltra più affondo nella tradizione popolare italiana, sarda in particolare.
A sorpresa si tiene lontano dal ‘suo’ pianoforte fino all’ottava canzone, ed apre con mandola, violoncello e percussioni sarde (mascelle d’asino, teste di morto, campanacci e corna…) affrontando – per la prima volta davvero di petto – la religione e le sacre scritture, come un Bob Dylan o un Leonard Cohen, e ci spaventa coi toni cupi perchè è di paganesimo, di peccato mortale e di un Dio biblico e vendicatore (“lo scandalo della carne, il sacrificio della carne… Babilonia la Gran Prostituta, che ha bevuto del sangue dei profeti…”) che Vinicio parla, per poi raccontarci dell’altro Dio, quello benevolo, nuziale, della preghiera serale (‘Ovunque Proteggi’), che come nel racconto di L.Andrejev riporta in vita un Lazzaro frastornato (“neanche il tempo di resuscitare, e subito l’hanno portato a mangiare…”), che fa piovere sulle messi e guida il viandante sulla strada del ritorno.
Insomma: per Capossela questa umanità d’inguaribili peccatori fa il suo mea culpa e subito dopo, come se niente fosse, porta il santo in processione tra gli applausi della folla (“alziamolo di peso gioventù… di spalla in spalla, di botta in botta le sbandate gli fanno la rotta”).
Canzoni molto lunghe – troppo: dai 4 agli 8 minuti ciascuna – con fiati (c’è Roy Paci) ed archi come se piovessero, chitarre fuzz, farfisa ma pure chincaglierie ed ospiti cinesi in ‘Lanterne Rosse’ (in cui fa capolino per un attimo l’eco distante del Duyssen-piano ormai all’incanto), e come dicevo prima: la Sardegna dei riti pagani e precristiani: il minotauro che si agita in ‘Non Trattare’ e sulla copertina del disco, e gli straordinari incisi vocali dei Tenores di Mamoiada.
Il singolo ‘Dalla Parte di Spessotto’ (che le radio, al solito, si rifiuteranno di trasmettere) mostra benissimo come nell’accolita dei rancorosi, ahime, ci sei dentro fino al collo già a 6 anni d’età: quando a catechismo t’interrogano e non hai studiato, e tra Davide e Golia fai il tifo per il cattivo, e sei con Adamo ed Eva, perchè per quella mela valeva la pena di rischiare la punizione.
Sono passi falsi invece ‘Moskavalza’, che vuol ripetere l’inspiegabile successo di ‘Maraja’, e l’immancabile pezzo da balera: ‘Medusa cha cha cha’, stavolta in salsa gay perlomeno vivace e colorato.
Ed oltre alla rilettura carica di pietà – ‘Santissima dei Naufragati’ – del drammatico poema di S.T.Coleridge (“The Rimes of the Ancient Mariner”), che trascina i marinai in fondo al mare, su questo disco c’è pure l’antica Roma, che forse è la stessa di ‘In the Colosseum’ di Tom Waits, ma a me ricorda più quella di cartapesta di Cinecittà dei vecchi film italiani “Medusa”, dove si squarta e si sbudella ‘Al Colosseo’ in un clima da curva ultrà: sciocca metropoli che si crede nel giusto e le toccherà d’esser squartata e sbudellata a sua volta dai barbari alle porte: parafrasi dei tempi moderni? chissà…
Ma il valore aggiunto del disco è ‘Nutless’, che riesce a conciliare un notturno al piano con un charleston, narrando dell’amore finito nell’abitudine (“quand’è che i muri si son chiusi addosso a noi?… questo andare a letto presto, quando è iniziato?… cara, cos’hai fatto oggi? caro, cos’hai fatto tu?”), come già fece sul disco d’esordio in ‘Una Giornata senza Pretese’.
Autore: Fausto Turi