I Good Good sono tre ragazzi, Peter Woods, Natalja Kent, e David Penn, occiasonalmente accompagnati in questo album da Amber Woods alla voce e chitarra, Art Middleton e Christoper Ratier, e la prima cosa che va detta è che è notevole l’impatto musicale complessivo che esce dagli sforzi di soli tre componenti, in quanto il sound è un’amalgama tecnicamente perfetta di molti strumenti, sintetizzatori, effetti elettronici.
Ma i Good Good non sono affatto una band elettronica o techno, al contrario, sono strumentisti e si ispirano al rock alternativo anni ’70, quello che dai Led Zeppelin per interderci, partiva verso le sperimentazioni più spericolate alla King Crimson e Genesis della prima ora, oppure si arriva ai Deerhoof per citare bands recenti.
La miscela della band è subito evidente sin dal primo pezzo (che poi probabilmente è anche il più riuscito) Silhouette, seguito da due esperimenti puri, senza melodia alcuna, Clouds e All the Voices, per tornare poi allo schema canzone con Cloud Forest, e soprattutto con Billions of Needles, dove i Good Good fanno capire che se lasciassero spazio alla melodia (magari anche facile, come in questo caso) le loro doti tecniche e creative sarebbero anche più convincenti.
E invece, su 13 pezzi complessivi, sei sono strumentali, e non si compongono in alcuna linearità o struttura degna di questo nome, (One of Cups, Trembling, The Finger Lake Spectre, Slapdance, Voice, All the Voices) e gli altri sette (oltre ai citati, We go, Wooden Cell, Flies) sono pure cantati, ma non sempre questo è sufficiente a renderli una canzone, cioè qualcosa che sia costituito di strofa/ritornello/assolo, che sarà un meccanismo trito e ritrito quanto volete ma di cui ti viene voglia quando poi ascolti certe composizioni che sanno da dove partono ma non dove arrivano. Peccato, perché la qualità non manca, e nemmeno il talento, ma la voglia di stupire e sperimentare a tutti i costi evidentemente prevale, con risultati quantomeno altalenanti.
Autore: Francesco Postiglione