“Probabilmente stiamo per partecipare ad uno dei più importanti concerti della storia della musica in Italia..”
Giudizio oggettivo o commento di un fan elettrizzato, fatto è che assistere ad una esibizione dei Residents è un’esperienza importante, di quelle da raccontare per anni, di quelle che ti permettono di dire con aria anche abbastanza compiaciuta “io c’ero”.
Si aggiunga, inoltre, che la data sold out del Circolo degli Artisti a Roma, è stata l’unica in Italia e a buona ragione quindi, l’evento entra di diritto nel novero delle esperienze da ricordare.
Coniglietti appesi, orecchie e costumi da coniglio (resta deluso chi si aspettava di vedere bulbi oculari vestiti in frac e cappello a cilindro), questi gli elementi apparsi in scena per richiamare “The Bunny Boy” l’ultimo disco del collettivo. ma non solo: una costruzione simil-igloo (implicitamente a richiamare lo storico Eskimo, elegia della loro personalissima Terra Promessa: il Circolo Polare Artico) che sul finale diventa quasi una volta stellata e video che raccontano le “peripezie” di Bunny Boy, ad intervallare i pezzi. Al centro della scena una porta, che sapientemente illuminata di rosso, lascia intravedere la sagoma di Bunny Boy e attraverso la quale il nostro eroe entra ed esce per recitare/cantare i pezzi in scaletta, bravo nello spaziare magistralmente fra monologhi deliranti – tutti costruiti sulla storia relativa a Postcards from Patmos, una serie di DVD mai pubblicati riguardanti un’oscura ricerca – ed esibizioni canore, accompagnate da sketch sonori della durata di pochi minuti (tutti tranne uno tratti dal nuovo album) in cui tutto viene macinato e ridotto a poltiglia informe; con le loro composizioni dal suono che non ha nulla a che spartire con la pulizia delle incisioni medie, e con l’ermetismo di non concedere nulla che non fosse quest’alterno e caustico recital fatto di alternanza tra musica e parole.
Ballando, intrattenendo il pubblico, agitandosi su e giù per il piccolo palco del salone del Circolo, spazio forse troppo striminzito sia per accogliere i Residents, sia per il pubblico che, oltre ai pochi fortunati in prima fila, non ha goduto di un’ottima visuale durante tutto il concerto.
Due ore di esibizione, intervallate da un break, una pausa in una sorta di spettacolo teatrale (o ancor meglio di teatro-canzone); nel mezzo pezzi quasi tutti dell’ultimo album che assieme ai video, pongono l’accento su temi classici della loro epopea comunicativa e iconografia musicale quali lo straniamento provocato dai media, il loro essere coercitivi, la perdita della dimensione umana (con tutte le correlazioni simboliche) in virtù di una nuova dimensione ibrida dell’esistenza.
Il complesso che più di ogni altro ha saputo fare di un sound amatoriale il proprio marchio di fabbrica: la grandezza principale del gruppo di San Francisco infatti sta proprio (ancora oggi) nel disvelamento di questa paranoia sul suono della musica pop. La loro rivoluzione sta proprio nel suono, caratterizzato da una vena calcolatamente approssimativa, che è entrata a far parte del loro sound. Sound che nell’occasione si presenta come una sorta di piano bar cosmico, di dada musicale (meno sghembo rispetto al passato), con una continua sequenza ambient dai toni dark e paradossali ottenuti applicando alla stimmung ambientale suoni bontempi, svisatine da pianista di piano bar, batterie dritte e sincopate (deliziose) che entrano all’improvviso nei brani. Stessa cosa dicasi per il collage low-fi dei video, vero motore narrativo dello spettacolo, dall’inconfondibile sapore youtube, ma del suo lato oscuro.
Due ore durante le quali è impossibile non soffermarsi a pensare a chi possa esserci dietro quei simulacri. Un mistero che va avanti da più di trenta anni. In realtà quello dei Residents è uno spettacolo multimediale che probabilmente non ha eguali: sin dal principio degli anni 70, Ia caratteristica principale della loro musica è “l’oscurità”. Oscuri sono i suoni, oscuri sono i testi, oscuri sono show multimediali come questo e, infine, oscuri sono i musicisti. II gruppo si distinse subito per un’immagine anti-divistica come poche: gelosissimi della propria identità, i Residents si esibivano raramente dal vivo, e comunque indossando maschere e costumi, come il costume da coniglio del performer canoro, cosi come le versioni “cyber-punk” dei costumi da “pin-up” di play boy, di questo tour. Tutte le forme espressive vengono solcate. Ciò che le accomuna tutte è la presenza costante di almeno un elemento di devianza dagli standard: un sorriso forzato, un elemento d’arredo fuori luogo, uno scatto convulso, una danza tremolante, un falso movimento; c’è sempre qualcosa che si inocula nella forma espressiva.
D’altronde si sa, dentro frigoriferi, bulbi oculari, conigli, potrebbe esserci chiunque, e questo, per quanto paradossale, è rassicurante perché consente di sottrarsi alla consunzione dell’identità ed al deperimento spettacolare del corpo, assicurandoci in questo modo altri anni di calcolato low-fi e mass-media esistenziale.
Autore: Pasquale Napolitano _ foto di Elettra Boccia
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