Venezia da anni ormai si distingue per la di sicuro non velata tendenza a prediligere un certo cinema elitario, fatto di assenza, incapace di colloquiare col pubblico.
Forse non ha aiutato il pessimo (dicono) doppiaggio in italiano che ha ripulito il film dei (pare fondamentali) rumori di fondo che avrebbero dovuto dare maggiore pregnanza e oggettività ad un film che è oggettivamente monocorde e che forse ha l’unico merito di mostrare l’altra faccia della “Tigre”.
Una faccia che dietro la propaganda delle grandi opere (vi ricorda per caso qualcosa?) nasconde la sofferenza di una popolazione che non è ancora pronta ad abbandonare il proprio passato, la propria casa, il proprio paese, inondato dalla furia di una modernità bieca e cieca.
Una modernità irrispettosa dei diritti della gente comune, che punta dritto verso un progresso con la sindrome di Priapo mentre intorno è solo devastazione.
Non c’è costruzione nel film di Zhang Ke Jia. Solo uomini di chapliniana parvenza che a ritmo di orologio innalzano i loro martelli e distruggono.
La modernità sta forse distruggendo la Cina? Come un funambolo senza protezione la “Grande Tigre” corre la sua corsa ad occidente. Nulla potrà difenderla da sé stessa.
Autore: Michela Aprea