Ascoltare il fluire fermo delle parole di Famoudou Don Moye, leader e percussionista dell’Art Ensemble of Chicago ha qualcosa di sciamanico. La gioia disincantata espressa dal suo furore è fedele rappresentazione dello stato di salute di una band al suo trentanovesimo anno di attività, ed alla sua ennesima mutazione, prima di partire per un tour europeo che sta toccando le più grandi piazze. Nel buen retiro di Pomigliano d’Arco, loro patria adottiva, ci parla del futuro, non senza qualche remora.
Com’è che siete così affezionati a Pomigliano?
Ohohho una domanda che non mi hanno mai fatto! [smorfie di scherno]. Allora: pubblico simpatico, ricette gastronomiche, un Jazz Festival con un bel programma. Poi è un posto tranquillo, dove possiamo lavorare concentrati, tentando di essere disciplinati.
Cambia la musica dell’Art Ensemble a seconda delle collaborazioni?
Cambia sempre! Dopo aver fatto sessanta tour da cinquanta concerti, direi che è cambiata molto. Poi dopo aver suonato per cinque-sei mesi con un artista, ognuno quando torna ai propri progetti individuali sente di aver preso a prestito qualcosa.
Che tipo di rapporto instaurate con gli artisti con i quali collaborate?
C’è cooperazione e condivisione, non c’è nessun atteggiamento di gelosia. Perché non ci sono ruoli determinati, come “il sassofonista vero” o “il percussionista vero”, io posso dire al sassofonista “fai così” [mima] e lui può dire a me “fai bum bum bum” [mima ancora]. C’è uno stato di totale condivisione, anche per apprendere reciprocamente.
C’è qualche musicista con cui hai suonato che ti è rimasto particolarmente nel cuore?
[smorfia, rivolgendosi al promoter]: Franco, hai portato la lista di tutti i musicisti con cui ho suonato?!, è una lista lunga così [quantifica con un gesto delle mani]. Uno che di recente mi è piaciuto è Paolo Fresu, ha un grandissimo quartetto, ed anche il duo con Roberto Gatto alla batteria è grandissimo. Ci ho suonato in una big band. Di internazionali… la lista è lunghissima!
E c’è qualche musicista in particolare con cui vorresti collaborare?
Ho già abbastanza problemi a suonare con tutti quelli che conosco! Non ho tempo di pormi il problema di con chi voglia suonare, comunque riempirebbero un’altra lista altrettanto grande.
Cosa porterete in questo tour mondiale?
E’ il 39esimo anniversario del gruppo, l’anno prossimo il quarantesimo, il mio 77esimo! Si vede? Quanti ne dimostro: 45, 55, 65, 75?
Ci saranno novità?
Bisognerà che tu veda il concerto, io non posso parlare di queste cose. Lo dovete capire da soli, perché poi se lo dico prima ai giornalisti, loro cambiano sempre quello che dico: se io dico “bla bla bla”, loro scrivono “blablablablabla blabla bla bla”, allora non credo che sia una buona idea.
Tornerete a Pomigliano dopo il tour?
Torneremo a Pasqua, a mangiare la pastiera, e poi saremo al prossimo Pomigliano Jazz, abbiamo già parlato di Art Ensemble of Chicago più Art Ensemble of Soccavo, un grande meeting.
A proposito di Pomigliano, ormai da anni sei impegnato in un progetto educativo di insegnamento della musica ai bambini. Cosa in particolare vuoi insegnargli?
Il ritmo
E poi?
Solo il ritmo! [mi sgrida]. Poi con loro è facile, perché non sono troppo distratti da pensieri troppo “reali”, dalle varie imposizioni sociali. Sono più aperti. Mi hanno insegnato che la musica è facile, la vita è difficile.
Che cos’è lo swing?
E’ un sentimento. Anche l’altalena ha un andamento swing, non è jazz. Non è un modo di vivere. Il ritmo è il mio modo di vivere. Pino Daniele è swing, Peppe Barra è swing….la tammurriata nera: ritmata senza essere jazz….come le quattro stagioni di Vivaldi.
In cosa, nell’attuale suono degli Art Ensemble, è rimasta l’impronta di Lester Bowie?
In ogni nota. Ogni nota si riferisce alla storia. Anche in memoria di Malachi Favors. [il bassista storico del gruppo, scomparso l’anno scorso, ndi].
Qual’ è il rapporto tra la vostra musica e quella etnica africana?
Puoi essere più specifico?!
Per esempio nell’esibizione del Pomigliano Jazz 2004 con Marco Zurzolo, insieme a percussioni propriamente jazz, utilizzavi percussioni di tradizione afro…
Anche afghane, giapponesi, indiane… è un misto: non suoniamo solo con strumenti afro.
Perciò ti domando che tipo di relazione c’è con la tradizione africana.
Devi ascoltare questo [Il disco insieme a Marco Zurzolo, da poco edito dall’etichetta di Pomigliano Jazz ], se non lo hai ascoltato vergogna….! Ci hai mai ascoltato?
Si, due volte
Allora scusa. [risa generali]
Come vi siete conosciuti con Marco Zurzolo?
Per me Marco è “the best rhythm of Napoli”, il numero uno. L’ho conosciuto nell’edizione 2001 del Pomigliano Jazz, ed ho suonato le congas, in tre pezzi della sua esibizione.
Lui rappresenta un’altra tradizione ancora, quella mediterranea.
Si, anch’io mi sento parte di questa tradizione, ho suonato e vissuto in Marocco, in Sardegna…
L’Art Ensemble è un pezzo di storia, e durante questa storia sono cambiate molto le tecnologie, anche nella musica…
In peggio.
Perché?
Più macchina e meno umano. Quello che gli altri chiamano postmoderno io la chiamo disumanizzazione della cultura. Le persone perdono il sentimento, la realtà del suonare, appresso alle macchine. La musica fatta con le macchine è per quelli che non vogliono studiare.
Però magari studiano le macchine…
Per fare cosa?! Se ci fosse un calo di corrente, o se il computer si rompesse, gli altri non potrebbero suonare, io si. Mi è successo di recente in Brasile.
Allora per voi l’approccio al suonare su disco è secondario rispetto al live?
Certo, tutti possono fare un disco. I nostri dischi sono più o meno “naturali”, perché siamo musicisti acustici.
Qual’è il tuo rapporto con quello che è normalmente definito jazz d’avanguardia?
Che vuol dire avanguardia? Non conosco questa parola.
Per esempio Ornette Coleman.
Ornette Coleman non è avanguardia. E poi noi non ci consideriamo musicisti jazz. La nostra è la musica classica nera americana. Come quella di Charlie Mingus.Autore: PasQuale Napolitano
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