Sfoglio una rivista, distratto, pagine patinate, ma d’un tratto eccolo lì, rettangolo bianco e nero a fondopagina, razionale e minimale come ciò che rappresenta. Pochi mesi fa, appuntamento in una fredda e ostile Milano, se ne erano andati ancora prima che lo sapessi, ma ora, contro ogni previsione, ritornano: l’appuntamento è per il quattordici, nel peggior posto del mondo dove passare ferragosto, a Lignano Sabbiadoro (l’epiteto è solo di hemingweiana memoria), ma cazzo se ci vado, perché sul palco saliranno i Bauhaus. Primo perché non ho mai visto, povero disgraziato, un loro concerto, poi perché il loro primo singolo risale all’anno della mia nascita, il che vuole soprattutto dire che i piccoli e neri lord si stanno facendo vecchi (oramai anche a me danno del voi): quindi le possibilità di vederli dal vivo si assottigliano sempre più, e non ci possono essere ulteriori indugi.
1977, in Inghilterra già sputano e urlano da un palco tutto il marcio di una società tumorale, creste colorate ed eroina sono ai primi posti della classifica, ma in mezzo a quel colore qualcuno cuce gli strappi e riunisce l’arcobaleno nel nero che lo contiene tutto, ma soprattutto esordisce con un singolo che rimarrà nella storia della musica, Bela Lugosi’s Dead. Il loro omaggio al discendente di Dracula (non credo che il sig. Lugosi abbia mai recitato) è un’esplosione, che immediatamente travalica i confini della nicchia, del genere, racchiudendo in quell’unico brano una dichiarazione di stile, una sorta di manifesto della loro poetica: ritmo ossessivo, semplice e ripetitivo come il battito del cuore; voce teatrale, suadente e sguaiata come solo quella di Peter Murphy; trasformare il palcoscenico in un piccolo teatrino, dove marionette pallide, sottili e nere inscenano macabre danze catartiche, allargarlo all’intera vita interpretata secondo dettami huysmaniani, con decadenti costumi che ricordano raffinati spettri barocchi, il fantasma di Canterville nel suo pauroso splendore e nella sua tagliente ironia, l’affascinante sorriso della morte. Non si poteva che rimanerne stregati: e così in pochi anni i Bauhaus incidono il loro nome con caratteri indelebili, e fortunatamente anche qualche disco. 1980, In The Flat Field, lo stringo tra le mani con infinito rispetto, la copertina (ancora erano degne di tale nome) nera con una foto sgranata tipo primi Novecento, come i ricordi di un sogno al mattino: scarto il grande vinile e subito cerco la title-track, inconfondibile, batteria e chitarra a perdifiato, impennate subliminali, e una voce che accarezza i brividi sulla pelle sussurrando e urlando una vertigine cosmica, poi salto fino a Spy in the cab, dove la notte si avvinghia alla voce rotta e quasi singhiozzante, mentre gli strumenti sono sparute luci nel buio che non consolano, lampeggiano come insegne impersonali. Ma il disco è ricco di contaminazioni, le più disparate, rielaborate per forgiarle insieme, fagocitate e digerite per buttarle fuori in perfetto stile Bauhaus. Contaminazioni che diverranno più eterogenee l’anno successivo in Mask, con la mirabile Passion of lovers, il primo loro pezzo che abbia ascoltato, certo il più popolare ma me ne frego, lo trovo straordinariamente irresistibile, con una cadenza dark che ti accompagna nell’oscurità dove “gli occhi iniziano a vedere”, e da lì possono urlare, urlare quanto ti voglio. Nuove influenze, tracce di glam, elettronica, rock-steady, formano un ibrido che smussa gli angoli al lavoro precedente, ne addolcisce i tratti, lo rende forse più melodico e meno squillante, ma sensualità e bellezza rimangono inalterate. Una parentesi con il Duca Bianco li porta a registrare una cover di Ziggy Stardust, per poi approdare al nuovo e penultimo album The sky’s gone out, con allegato nella prima versione il live Press the eject and give me the tape, registrato tra l’Inghilterra e Parigi e con la caustica indicazione sulla copertina: Play very loud. Il disco è più frammentario dei precedenti, e certo è anche quello meno consumato, ma come bene sottolineano Fabretti e Roma “sfoggia comunque altre piccole perle”. Una folata di vento, una brezza di decadente e aristocratica conoscenza, che presto lascia il posto all’afa torrida del nulla: un piccolo ultimo lavoro (Burning from the inside) per salutare il pubblico e rimanere nella storia. Poi oscurità e silenzio fino al 1999, quando una storica riunione li porta a furoreggiare su numerosi palchi, per la gioia di tutti coloro che nei primi anni ottanta ancora avevano le ginocchia sbucciate e progettavano astronavi interstellari con i mattoncini della Lego, per tutti coloro che sono arrivati dopo ma, e questa è la nostra fortuna, non troppo tardi. 14 agosto allora, neri e tenebrosi, tra turisti teutonici e zanzare elefante in quel paradiso di cemento che è Lignano (sta in Friuli, su su, in alto, e poi girate a destra). Per ogni informazione www.indipendente.com
Autore: Pierpaolo Livoni
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